Dalla parte dei migranti

Abbiamo incontrato don Pierluigi Di Piazza, direttore del Centro Balducci, che dal 1989 accoglie profughi e rifugiati

Io mi sento laico, umile credente in ricerca e poi da ultimo sacerdote, che cerca di contribuire al bene della società. Sono “anticlericale”, nel senso di contro il “privilegio” del clero, inteso come un gruppo di persone separato dalle altre. Ci tengo alla laicità, perché ci ricorda che siamo tutti uguali.

Don Pierluigi Di Piazza, parroco di Zugliano

Tutte le grandi storie iniziano dalla sofferenza. E questa non fa eccezione. Il 6 maggio 1976 un terremoto di magnitudo 6.5 sulla scala Richter si abbatte sul Friuli, distruggendo borghi e paesi e causando quasi mille morti. Lo sforzo della popolazione per rialzarsi è diventato leggendario: «prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese» è il motto dei mesi che seguono il sisma, coniato dall’allora Arcivescovo di Udine Alfredo Battisti. Negli anni successivi, i contributi per la ricostruzione arrivano anche a Zugliano, una piccola frazione di Pozzuolo del Friuli. C’è la canonica da restaurare, ma il parroco – don Pierluigi Di Piazza – preferisce costruire due piccoli appartamenti: uno per il sacerdote e l’altro per accogliere i bisognosi. Un proposito che trova presto attuazione: nel febbraio 1988 don Di Piazza accoglie le prime tre persone, provenienti dal Ghana, nella nuova canonica. È l’inizio di quello che sarebbe diventato il Centro Ernesto Balducci.

Il borgo di Zugliano si trova poco a Sud di Udine, nel cuore del Friuli Venezia Giulia

Giovedì 23 gennaio, il Centro Balducci e le pratiche d’accoglienza sono state al centro di un incontro tra don Di Piazza e gli allievi della Scuola Superiore, l’istituto d’eccellenza dell’Università di Udine. Assieme agli studenti, don Di Piazza ha ripercorso le tappe principali della trentennale storia del Centro: la ristrutturazione del 1992 e la successiva nascita di una onlus intitolata a padre Ernesto Balducci; nel 2003 la decisione di ampliare la struttura per poter accogliere cinquanta persone; la fine dei lavori nel 2007, grazie al contributo della Regione. In questi anni sono state ospitate centinaia di persone provenienti da 55 paesi diversi, comprese autorità religiose e internazionali. Infatti, alla base dell’attività del Centro non c’è solo l’accoglienza dei bisognosi, ma anche il dialogo culturale e religioso. Don Di Piazza lo definisce «un centro nato dal Vangelo che si esprime nella laicità», capace di ospitare per due volte il Dalai Lama, oltre che a personaggi nazionali del calibro di don Luigi Ciotti e Liliana Segre.

Migrazioni globali e logica del capro espiatorio

Secondo don Di Piazza, ciò che rende “nuovo” ai nostri occhi il fenomeno migratorio è la sua natura globale. Anzi, non si può capire – e dunque affrontare – il fenomeno se non si riesce a tenere insieme la cultura locale con una dimensione planetaria. Proprio l’attenzione per questa seconda caratteristica – insiste Di Piazza – è assente dal dibattito pubblico ed è la causa non solo della mancata accoglienza, ma anche della crescita delle partenze. Non si tiene conto delle concause e delle corresponsabilità alla base delle migrazioni: ci si rifiuta di accogliere i cosiddetti migranti economici, nascondendosi dietro quella che don Di Piazza definisce una «distinzione faziosa da dibattito televisivo», senza riconoscere come alla base di tutto ci siano le guerre fratricide, che condannano i popoli alla povertà. Un dato rilevante spesso non viene citato: l’85% dei migranti trovano rifugio in paesi poveri, spesso paesi confinanti. È il caso di Uganda e Libano che, pur essendo piccoli, accolgono oltre un milione di profughi, rispettivamente dal Sud Sudan e dalla Siria.

«In seguito ad un accordo con l’Unione Europea, la Turchia accoglie tre milioni e mezzo di migranti provenienti dalla Siria. E noi abbiamo il coraggio di parlare di invasione?».

I migranti son diversi da noi, è innegabile, ma questa – secondo don Di Piazza – è una salutare provocazione, che può aiutarci a smettere di identificare il mondo con il “nostro mondo”. «Lo slogan “prima gli italiani” è solo la continuazione di ciò che è sempre stato – ammonisce il sacerdote – il desiderio di scavalcare e trarre vantaggio da presunti “mondi minori”». Vedere nello straniero il capro espiatorio di tutto è una comoda risposta a quel senso securitario che è innato in noi, quel bisogno di sicurezza che precede la xenofobia e l’odio e che – se non educato – può sfociare nel peggio. La logica del capro espiatorio causa una guerra tra poveri, perché lascia prevalere un sentimento vendicativo. E non è un caso se oggi, in politica, vince chi sa interpretare questa emotività irrazionale.

Perché mai una parola sulle badanti, che spesso sono irregolari e lavorano in nero? Perché sono all’interno delle case anche dei leader populisti, perché non smuovono l’emotività irrazionale, perché non fanno paura.

Il vero problema dell’immigrazione in Italia

La legge che regola l’immigrazione e l’accoglienza nel nostro paese risale al 2002 ed è la cosiddetta Bossi-Fini, quella che ancora oggi impedisce ad ogni migrante di lavorare regolarmente nel nostro paese. La questione torna ciclicamente ed è stata di recente sollevata da un lungo articolo di Luca Misculin su Il Post. La Bossi-Fini – tra le altre cose – limita l’ingresso in Italia soltanto ai migranti già in possesso di un contratto di lavoro, vieta di rinnovare il permesso di soggiorno a quei migranti che non abbiano un lavoro e indica in ambasciate e consolati dei paesi d’origine gli organi adibiti al collocamento. Insomma, tutto si basa sull’assunto che domanda e offerta di lavoro potessero essere gestite a distanza, prima dell’arrivo in Italia. È facile immaginare cosa abbiano comportato negli anni delle regole così severe e di difficile applicazione: centinaia di migliaia di migranti irregolari, costretti a lavorare in nero. Una legge del genere, pensata nel 2002, non è ovviamente adatta a gestire flussi migratori come quelli che stanno attraversando l’Italia e l’Europa negli ultimi anni. Dunque, che fare?

Secondo don Di Piazza, «perché l’accoglienza sia possibile, è necessaria una dimensione culturale, prima che organizzativa, favorevole». Non si tratta di buonismo dell’accoglienza, ma di cultura dell’accoglienza. Al posto del motto fascista «me ne frego» – ancora così in voga – bisogna far rifiorire nella società il motto che don Milan ha scritto all’ingresso dell’oratorio di Barbiana: «I care this», mi interesso, ci tengo e dunque mi do da fare. Insomma, non si può sperare che la politica risolva la questione, calando dall’alto una legge risolutoria, come un deus ex machina. Bisogna invece partire dal contesto culturale, in un’ottica che don Di Piazza non teme di definire gramsciana.

Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. […] Cultura, filosofia, umanità sono termini che si riducono l’uno nell’altro. […] Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque lo voglia. Basta sforzarsi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato.

Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino (1975)
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Perdutamente affascinato dalla domanda che il pastore errante dell'Asia non riesce a trattenere di fronte al cielo stellato: «Che fai tu Luna in ciel?». È lo stupore il sale della vita! Amante della realtà in tutte le sue sfaccettature: continuamente teso alla ricerca della meraviglia e dell'infinito. Acerrimo nemico dell’indifferenza e terribilmente curioso, assetato di conoscenza, inguaribile ottimista. Scrivo per andare oltre, al cuore della realtà.

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