Milano, primo giorno di quarantena

I Navigli, la Darsena e la zona circostante narrati nell’incredulità di una situazione mai vista prima. Un racconto di Milano al primo giorno di quarantena.

L’emergenza causata dalla diffusione del Coronavirus ci ha colto impreparati e indifesi, esponendoci a fragilità che neanche sapevamo di avere, sia come individui che come comunità. È importante in questo momento dare una testimonianza di ciò che stiamo vivendo, di come siano cambiate le nostre città, di come la nostra vita da un giorno all’altro sia stata totalmente stravolta. Sarà utile per le generazioni future, che studieranno quest’epoca sui libri di storia, e anche per noi stessi, per ricordarci di tutto questo quando si potrà di nuovo andare a bere un drink con gli amici, per non darlo mai più per scontato.

Questo racconto, più che narrare una storia, cerca di dipingere una sensazione di incredulità, sgomento e anche fascino, per certi versi. Risale al giorno successivo all’emissione del DPCM del 9 marzo, che sanciva nuove misure per il distanziamento sociale: di fatto, l’inizio della quarantena.

Ho fatto una cosa discutibile stasera. Ho trasgredito la regola del “restate a casa”, avevo bisogno di raccontare. Amo la mia città in tutte le sue sfaccettature, vado alla ricerca dei suoi umori più nascosti e non potevo resistere al fascino di una Milano forzatamente vuota, silenziosa, impaurita, come probabilmente non la rivedrò mai più. Così, sono uscita per una passeggiata, tenendomi ben lontana dal potenziale rischio di contagiare qualcuno. Ecco com’è andata.

Esco di casa e mi accorgo all’istante che non è una sera come le altre. Il silenzio è irreale, la quiete è tale da mettere ansia. Giro l’angolo e nulla si muove. Dal fondo della strada vedo i fari di una macchina avvicinarsi a velocità ridotta. È la polizia, che controlla che per strada non ci sia nessuno ad assembrarsi. Dopo alcuni metri un’altra macchina. Ancora polizia. Sono in Via Villoresi, la strada che dà sul Naviglio Grande, e all’incrocio c’è un posto di blocco. Temendo l’eventualità di una multa torno indietro, aggiro l’ostacolo e passo internamente per il parco Baden Powell.

Il parco è muto. Spettrale. Lo adoro in questa veste spoglia e inquietante. Non rilascia odori particolari, eppure si intravedono gli alberi in fiore, il prato è verde. Sta arrivando la primavera, nonostante tutto. Andando avanti incrocio delle persone con dei cani al guinzaglio. Penso che uscire con il cane rientri nelle attività necessarie. Giustamente.

La camminata prosegue in un silenzio rotto soltanto dal passaggio isolato di qualche macchina. Dallo sferragliare dei tram, completamente vuoti. Dalle sirene delle ambulanze.

Svolto sul Naviglio Grande, finalmente. Credo che nella storia i viali che fiancheggiano il canale non siano mai stati deserti. Non come stasera. Li trovo bellissimi, in un silenzio che non gli appartiene. Penso che sia un privilegio poter camminare in una Milano così, se non fosse che il motivo di questa situazione è tutt’altro che bellissimo. È drammatico.

Nel tratto che va dal ponte Alda Merini alla Darsena c’è un esiguo numero di passanti, ma basta a rompere l’incanto delle serrande abbassate. Si sentono addirittura delle voci. Ed eccomi sulla Darsena, che si mostra in un’eleganza austera. Le luci si riflettono immobili nello specchio d’acqua. Mi guardo intorno. Tutto tace.

In Via Vigevano, andando verso Porta Genova, c’è più movimento. C’è qualche ristorante aperto, ma vuoto e con la porta chiusa. Per strada ci sono parecchi riders. Alcuni con la mascherina o incappucciati fino agli occhi. Altri canticchiano spensierati. Almeno stasera non rischiano di essere investiti.

Faccio per tornare verso casa e i rumori della vita cittadina, già ridotti ai minimi termini, si diradano. Vengo di nuovo inghiottita dal silenzio irreale e dall’immobilita delle macchine parcheggiate. Tutto tace, ma le finestre dei palazzi sono illuminate. La gente è davanti alla tv a guardare l’ennesimo speciale sull’emergenza Coronavirus. Tutti in attesa del bollettino di fine giornata. Tutti in attesa di sapere cosa fare e come vivere in questi giorni strani.

A poche centinaia di metri dal mio cancello vedo ancora le luci blu delle volanti. Squilla il telefono. È mia mamma, che mi parla allarmata. “Torna a casa! Tu non hai un buon motivo per poter stare fuori.”

E invece ce l’avevo. Dovevo raccontare quello che si fa ancora fatica a credere. Dovevo viverlo, forse per crederci davvero anche io.

Questo testo non vuole in nessun modo incentivare pratiche non in linea con le restrizioni attualmente in vigore. È stato realizzato quando i divieti ancora non imponevano la limitazione delle uscite individuali entro i 200 metri dal proprio domicilio. L’autrice e la redazione tutta invitano al totale e necessario rispetto delle norme stabilite dall’ultimo Decreto Ministeriale riguardante l’emergenza Covid-19.

Lavoro nel mondo della comunicazione e passo il resto del tempo tra sport, libri e concerti. Mi piace scrivere poesie, andare alla scoperta di luoghi e, in generale, guardare oltre la superficie delle cose. Su Cogito et Volo do spazio alle mie visioni e riflessioni.

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