Perché avete paura?

Venerdì sera Papa Francesco ha rivolto la benedizione urbi et orbi a tutti i fedeli del mondo. Le sue parole ed i suoi gesti interrogano tutti noi.

Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa.

Papa Francesco, meditazione del 27 marzo 2020

Comincia così il suo intervento Papa Francesco, davanti ad una piazza San Pietro surreale, vuota. Il brano del Vangelo secondo Marco che ha scelto per la sua riflessione non poteva essere più adatto al momento che stiamo vivendo. È sera, Gesù e i discepoli si trovano per mare, quando si alza un gran vento: arriva una tempesta improvvisa. Le onde minacciano di rovesciare la barca, ma Gesù se ne sta a poppa e non sembra badare alla situazione, anzi dorme. I discepoli, ormai vinti dal panico, fanno la cosa più umana possibile. Corrono a svegliare il maestro e con fare indignato gli chiedono: «Maestro, non t’importa che moriamo?». Non è forse la domanda che ogni giorno – credenti e non – ci troviamo a rivolgere a Dio: se davvero esisti e sei buono, perché permetti tutto questo?

In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro.

Papa Francesco, meditazione del 27 marzo 2020
La riflessione di Papa Francesco a partire dal Vangelo secondo Marco (Mc 4, 35-41) di venerdì 27 marzo 2020

Sarà una delle tante immagini che ricorderemo quanto tutto sarà finito, una di quelle che i giornali si affrettano a definire «epocali»: il Papa, solo, parla ad una piazza vuota, invoca Dio dal centro di una città deserta, di una nazione impaurita. Vale la pena soffermarsi sui dettagli, sui simboli che Francesco ha voluto accanto nel suo momento di preghiera. Il palco da dove parla è posizionato appena fuori dalla basilica di San Pietro, le cui porte sono spalancate: la Chiesa – come il Dio cristiano – è sempre protesa verso l’altro, non ha paura.

Vicino sono stati posizionati due oggetti che la Storia e la tradizione popolare hanno caricato di un enorme valore: l’icona della Madonna salus populi romani e il crocifisso della chiesa di san Marcello al Corso. La prima appartiene alla tradizione delle icone acheropite – «non dipinte da mano d’uomo» – anche se probabilmente risale al IX secolo. Raffigura Maria intenta stringere tra le braccia il figlio Gesù. Storicamente, i vescovi di Roma l’hanno pregata spesso affinché liberasse la città dalle epidemie o da pericoli esterni. Il secondo è un crocifisso ligneo del XIV secolo: scampato miracolosamente ad un incendio, nel 1522 venne portato in processione per le vie di Roma, per chiedere la fine della peste che affliggeva la città. Al termine della processione – riportano le cronache – i contagi cessarono. Qualche giorno fa, Papa Francesco si era già recato in pellegrinaggio alla Chiesa di san Marcello, dove il crocifisso è conservato.

La Madonna salus populi romani, foto di SeoulKing disponibile su Wikimedia Commons

All’uomo del 2020, cresciuto nel nome della Scienza e del progresso, potrà sembrare inutile e quasi infantile – sicuramente non razionale – fermarsi a venerare due oggetti. Eppure, non c’è bisogno di essere credenti per comprenderne il valore intrinseco. Questi oggetti ci ricollegano direttamente alla storia degli uomini che ci hanno preceduto. O meglio, ci ricollegano a tutti quei momenti della Storia in cui gli uomini hanno rivolto il loro grido al cielo, sconcertati: «Maestro, ma non t’importa che moriamo?». Quei due oggetti ci ricordano che, da migliaia di anni a questa parte, non siamo mai cambiati: che anche se abbiamo trovato il modo di spiegare il fulmine, non possiamo smettere di esserne spaventati; che nonostante tutti i nostri progressi, non siamo mai diventati invincibili; che pur illudendoci di poter controllare la Vita e la Natura, non siamo ancora riusciti a ingabbiarle. E quando arriva la tempesta – oggi come davanti ai pericoli e alle epidemie del passato – ci troviamo spogli e deboli, uomini e donne impotenti. Tutti uguali.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

Papa Francesco, meditazione del 27 marzo 2020
L’adorazione eucaristica di Papa Francesco di venerdì 27 marzo 2020

Succede poi una cosa insolita: dopo aver parlato ad una piazza vuota e aver pregato di fronte a due simboli di devozione popolare, il Papa varca le porte della basilica di San Pietro e sosta in adorazione davanti all’Eucarestia. Il focus delle riprese televisive passa da Francesco in preghiera a quel singolo pezzo di pane, incorniciato da un’ostensorio dorato. Il tempo si ferma e per lunghi interminabili minuti esiste soltanto quel pezzo di pane consacrato che – per il credente – è transustanziato, ovvero convertito nel corpo di Cristo. Niente immagini o crocifissi miracolosi, solo carne fisica e presente.

Mi sono chiesto cosa possa significare per un non credente un’immagine come questa. Anche a voler osservare la cosa da una prospettiva distaccata, rimane il dato teologico: li davanti c’è – ci sarebbe – il corpo di Dio, fattosi uomo e sacrificatosi per l’umanità intera. In una parola: un mistero, tanto per il credente che vi si aggrappa con tutta la sua fede quanto per il non credente che non vede altro che un semplice pezzo di pane. Forse non c’è poi così tanta differenza tra i due, anzi c’è un fatto cui nessuno può sfuggire: l’attrazione profonda per un Dio che muore in croce, che dona il suo corpo e il suo sangue per prendere su di sé il male del mondo. Anche a non volerci credere, è impossibile non contemplare un mistero simile.

Papa Francesco in preghiera nella basilica di San Pietro davanti all’Eucarestia consacrata

E mentre si contempla l’immagine di quel pezzo di pane e di tutto ciò che sembra sottendere, nel cuore si insinua una domanda: è davvero un insieme di azioni il senso della nostra vita? È questione di tempo, esperienze fatte e cose accumulate? O c’è qualcos’altro? Il mistero di quell’Eucarestia sembra raccontare tutta un’altra storia: non sono il tempo o la morte a determinarci, non sono le azioni, non sono le conquiste. È l’amore. È il puro e semplice amore fraterno – incondizionato, che nulla chiede in cambio – che ogni giorno rivolgiamo agli altri. Non veniamo al mondo per vivere ottant’anni circa e poi morire. Non veniamo al mondo per realizzare chissà quali imprese. Ci è data una sola cosa quando veniamo al mondo: la possibilità di amare. Vivere, dunque, non è questione di momenti o di azioni, è accettare o meno la possibilità di amare.

L’esempio più bello di ciò è quello dei tanti medici e infermieri che da oltre un mese lottano contro un nemico sconosciuto. Potrebbero non riuscire a salvare nessuna vita, potrebbero essere contagiati loro stessi, potrebbe essere tutto inutile, eppure lo fanno: amore incondizionato. Lo stesso amore che l’Eucarestia sottende: un Dio morto per dare la vita ai propri amici. «Perché avete paura? – chiede Gesù ai discepoli sulla barca in preda alla tempesta – Non avete ancora fede?». Che cosa c’è da temere? Il coronavirus, come le epidemie del passato, spaventa l’uomo e il suo egoismo, ma non intacca l’amore. Perché l’amore non si misura in tempo e spazio, non si può imbrigliare. E anche se di fronte agli orrori e alle sofferenze può essere difficile da sostenere, è l’amore l’unica cosa che conta.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. […] Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

Papa Francesco, meditazione del 27 marzo 2020

Ecco, dunque, che quella preghiera e quella benedizione urbi et orbi – «alla città e al mondo» – sono davvero per tutti. Non sono un retaggio di un passato oscurantista e irrazionale, ma la certezza che cambia il cuore dell’uomo: avere fede significa avere speranza. Significa credere che dopotutto e nonostante tutto, un senso a questa vita ci sia. E che sia il senso più bello di tutti: quello dell’amore.

* Le immagini di questo articolo, ove non diversamente specificato, sono tratte dalla diretta video del “Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia” curata da Vatican News e disponibile a questo link.

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Perdutamente affascinato dalla domanda che il pastore errante dell'Asia non riesce a trattenere di fronte al cielo stellato: «Che fai tu Luna in ciel?». È lo stupore il sale della vita! Amante della realtà in tutte le sue sfaccettature: continuamente teso alla ricerca della meraviglia e dell'infinito. Acerrimo nemico dell’indifferenza e terribilmente curioso, assetato di conoscenza, inguaribile ottimista. Scrivo per andare oltre, al cuore della realtà.

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