Studiare a Bologna prima e dopo il Covid

Vorrei andare a studiare a Bologna, ma chissà com’è la città dopo il Covid… Ecco la risposta alla tua perplessità!

Lo speciale di giugno è a tema universitario: dati, contrasti e sentimenti sull’ambiente che è (o dovrebbe essere?) culla da cui studiare il futuro. Tutti gli articoli dello speciale laurea sono reperibili qui.

Venticinque settembre 2019

Un fiume di urla e braccia strepitanti mi assale davanti a via Zamboni 38, sede del dipartimento di Storia Culture e Civiltà. Alle 11 inizierò la mia avventura da studentessa magistrale friulana capitata per mille motivi a Bologna. Le numerose voci confuse, caratterizzate da accenti variopinti, mi risvegliano, cullandomi nell’ebbrezza della novità, dalle mie congetture mentali e dalle mie paure di non essere abbastanza o di non essere all’altezza.

Neanche a un concerto c’è così tanta gente, commenta mia mamma divertita. In effetti vedo davanti a me alternarsi ciuffi rosa, borsoni neri, occhi vispi, capelli arruffati, canne alla mano – non c’è da stupirsi, in prossimità di Piazza Verdi – e sguardi di chi si rivede dopo tanto tempo, mischiati a quelli delle matricole che volentieri si lasciano cullare dal caos trionfante. Nell’aria c’è odore di cibo, fumo e risate: sono pronta a nuotare in questa confusione senza pregiudizi.

Credits: Anna Tonazzi

L’aula Celio dicono sia al terzo piano ma non si trova: continuo a finire nei pressi della biblioteca di Filosofia, eppure l’inconveniente mi diverte e non mi agita come al solito. Conoscendomi, è un bel passo avanti per superare la mia maniacalità. Sulle scale incontro una ragazza dallo sguardo perso, decido così di sorriderle complice e di chiederle semplicemente: «Anche tu Aula Celio?». Scoppiamo a ridere e ci mettiamo a cercarla assieme, e dal momento che l’unione fa la forza riusciamo nel nostro intento.

Le sedie sono tinte di un blu scuro e i banchi bianchissimi. Su di essi si adagia decisa la luce proveniente dalle numerose finestre che volgono su palazzi di ogni tonalità di rosso. Questo connubio tra colori della bandiera greca e delle strade di Bologna quasi mi emoziona, così come la lezione che mi entusiasma dal primo secondo. La professoressa è di origini calabresi ed è appassionatissima. A questo punto mi rendo conto di quanto potrò imparare in questa torre di Babele che mi circonda.

Mi sono seduta accanto a un ragazzo sardo di Scienze Storiche, dietro di me invece c’è una ragazza siciliana e un altro sardo. Sorrido immaginandomi la loro reazione davanti al mio accento stretto: forse penseranno che venga da una società di mandriani e invece sono semplicemente del nord.

Quando esco dall’aula e scendo le scale, verso le 12.45, l’atrio si illumina nella sua solennità e il sole scalda il mio entusiasmo. Odore di tortellini, fumo, schiamazzi: tutto sempre uguale e tutto costantemente sempre nuovo e inaudito.

Le strade sono piene di vita, musica, siringhe e bicchieri di plastica, abbracci, saluti, rincorse. Ed ecco volantini, coriandoli, cemento, comunismo, birre, giornali, stradicciole, cacche di cani, motorini, pizze, coppiette, sguardi intrecciati, caos incastrato in una routine monotonamente innovativa.

Mi sento libera, autonoma, viva: sono sulle mie gambe, pronta per una nuova vita.

Credits: Anna Tonazzi

 Ventiquattro maggio 2020

Dopo tre lunghi mesi sono tornata a Bologna, dato che ero stata sorpresa dal lockdown che mi ha costretta in patria. Metto a posto la valigia con gli occhi stanchi, chiudo la finestra e mi guardo intorno. Non riconosco più questa stanza. Non ho più gli occhi per vederla, quegli occhi entusiasti di settembre secondo i quali tutto era travolgente e mai uguale a se stesso.

Per le strade le persone si schivano, il silenzio è agghiacciante, persino gli spacciatori non stanno più in piazza, anche perché ormai si sa che le transenne la delimitano. Niente più musica, né fumo, a malapena le voci dei rider di Just Eat interrompono la monotonia. Ciaooo, buon appetito!… Grazie, arrivederci! ed è come un sussulto sussurrato con occhi forzatamente vispi e sorridenti, anche se dentro di me mi sento morire e se non fosse per i miei coinquilini non riuscirei a reggere tutto questo ancora per molto.

Forse non so spiegare quanto sia difficile cercare di ritrovarmi in una città che non ritrovo, che non conosco più. Mi sfondo di tortellini, tigelle, frappè, ma non è quello che riesce a ridare il sapore a una grande città che vive in sordina.

Non suona il suo fragoroso vissuto, non canta più la litania della propria routine pazza e ormai definitivamente stravolta.

Credits: Anna Tonazzi

In via Centotrecento le sedi universitarie sono sprangate, le persiane verdi definitivamente abbassate. Sembra di stare in The day after, come diceva dietro il freddo schermo una nostra professoressa quando il virus ci ha strappato dalle aule immense e antiche dell’Università di Bologna. Anzi, dell’Alma Mater Studiorum, come a loro piace dire.

Mi manca il casino in cui potevo confondermi. Ora i pensieri suonano tutti più forti, le mie preoccupazioni svettano altisonanti verso le torri mentre cerco di addolcirle con la deliziosa crema di parmigiano. Entro nelle librerie ma non provo nulla: nessuna curiosità, nessuno slancio emotivo.

Mi trovo a camminare sotto i portici guardando molti negozi chiusi, mi abbandono all’altezza solenne delle volute degli archi e nelle cuffie sparo musica motivazionale epica per guerrieri. Neanche l’idea di non avere orari mi rincuora, anzi il pensiero di tornare a chiudermi nella mia stanza per togliermi la mascherina e respirare mi spaventa. Su e giù per via Francesco Rizzoli fino a metà di via Ugo Bassi, mi fermo sempre nello stesso punto e torno indietro.

Cerco di sorridere ma la mascherina si piega e mi finisce in bocca: meglio evitare di mentire a me stessa.

Non incontro più nessun mio compagno di corso come una volta, perché sono tutti rimasti a casa, nella loro città, assieme ai loro accenti, alle loro avventure da raccontare, le loro esperienze e le loro idee. Me ne devo fare una ragione: Bologna si è persa, e solo qualche rassegnato drogato rimane nascosto a farsi, accovacciato dietro le macchine di via San Giacomo. 

Fa caldo, immensamente caldo, l’estate è alle porte ma non c’è nulla che la rifletta se non l’asfalto bollente. Mi è passata la fame, nulla ha più quel sapore di novità, c’è poco altro da conoscere qui.

Credits: Anna Tonazzi

Ventitré gennaio 2021

La stanza risplende di un giallo che a malapena ricordavo. Ricordo il sorriso con cui mi ci ero tuffata, mi veniva da piangere dall’emozione. Ora invece, vedendola così spoglia, mi rendo conto che la sto lasciando. Non dirò più a nessuno che sono la Anna della 214, nessun rider chiederà di chiamarmi in stanza per consegnarmi il pranzo o la cena nei week end in cui la pigrizia ha la meglio, nessuno busserà alla mia porta per chiedermi cinquanta centesimi per la lavatrice. Ero certa che non ti avrei lasciata subito, Bologna, di certo non dopo un anno e mezzo appena, ma sei cambiata e io ho bisogno di ritrovarmi.

Eppure quel che sento dentro di me è che sono forte ora grazie a questa esperienza. Ho imparato che non si può fare la stessa dannata strada col navigatore per quattro mesi per arrivare in via De’ Chiari alle prove di coro e comprendere il percorso solo il giorno del concerto finale. Ebbene sì, a Bologna ho anche appreso che se in frigo non c’è niente e fuori piove e fa freddo e buio, o si resta a digiuno o si escogita qualcosa. Ho capito come vivere nonostante le avversità e ad essere sola nel combattere, e poi a dare valore a chi mi ha dimostrata la propria presenza anche a distanza.

Quello che voglio dirvi è che Bologna è un’esperienza con o senza Covid, e consiglio a chiunque di viverla in ogni suo angolo. Sì, anche se inizialmente vi sembrerà una bottiglia di birra mezza rotta buttata in un angolo, sporca e utilizzata da molti. Se vi avvicinerete e troverete la giusta angolatura, ne vedrete brillare il vetro: non sarà uno Swarovsky, ma vi insegnerà a rifulgere della vostra luce senza paura.

Magari non tra le sue rosse braccia, come è successo a me che sto chiudendo la valigia per tornare nella mia terra natia, ma potrebbe succedere. Se non si rischia almeno una volta di perdersi non si sarà mai effettivamente pronti per ritrovarsi.

(Immagine di copertina: photo by Ubaldo Bitumi on Unsplash)

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Non ho il dono della sintesi e qui mi è richiesta una brevità epigrammatica: vi basti sapere che sono un'appassionata antichista, dedita corista e aspirante insegnante e scrittrice. Amo viaggiare, conoscere persone nuove e mettere per iscritto ogni emozione vissuta.

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