Le ragioni del sì, con Margherita Zappatore

«Meno parlamentari su uno stesso territorio saranno più riconoscibili e più responsabilizzati, la rappresentanza non sarà più sperequata»

Perché votare sì al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre? L’ho chiesto a Margherita Zappatore, 24 anni, neolaureata in Giurisprudenza, praticante avvocato nel Foro di Lecce e alunna della Scuola superiore ISUFI. Appassionata di politica, è attivista del Movimento 5 Stelle da quando ha compiuto 18 anni.

Tagliare il numero dei parlamentari porta ad un risparmio per le casse dello Stato?

C’è effettivamente un risparmio importante – 57 milioni l’anno secondo l’Osservatorio conti pubblici italiani -, ma il fine della riforma non è il contenimento delle spese e io personalmente non supporto il taglio dei parlamentari per il risparmio economico.

Riducendo il numero dei parlamentari si pone un problema di rappresentanza dei cittadini, soprattutto per le minoranze e le regioni meno popolose?

Secondo me non si pone. Se guardiamo alle statistiche, già oggi abbiamo una sperequazione enorme tra regioni. Basti pensare che oggi in Basilicata si elegge un senatore ogni 83 mila abitanti, mentre in Sardegna se ne elegge uno ogni 205 mila abitanti. Questo vuol dire che in Sardegna per eleggere un senatore occorre una popolazione due volte e mezzo maggiore rispetto alla Basilicata. Dopo la riforma, invece, questo rapporto non sarà così sperequato. Inoltre, quanti oggi possono dire di conoscere anche soltanto i nomi degli onorevoli e dei senatori della propria provincia? Se a ciò aggiungiamo il dato degli assenteisti, comprendiamo come in realtà il parlamento sia già dimezzato e poco rappresentativo dello Stato. Invece, meno parlamentari su uno stesso territorio sono più riconoscibili e più responsabilizzati.

Rispetto al 1963 – anno in cui il numero di senatori e parlamentari venne fissato per legge a 315 e 630 – la rappresentanza in Italia si è fatta più articolata, attraverso l’elezione diretta dei sindaci, la nascita delle regioni e dunque l’elezione di consiglieri e presidenti di regione, l’elezione dei parlamentari europei. Alla luce di ciò, il numero dei parlamentari può considerarsi troppo elevato e non al passo con i tempi?

Questo è un punto essenziale per capire il senso della legge. Ci sono oggi vari gradi di rappresentanza: Nilde Iotti, prima presidente della Camera, diceva che la democrazia è tanto complessa quanto è complessa la società. Negli anni la rappresentanza ha seguito l’evoluzione della società e si è fatta più articolata. Se pensiamo al caso del Senato, i membri vengono eletti su base regionale con il fine di rappresentare i territori, comprendiamo bene di trovarci di fronte ad una rappresentanza sovrabbondante: rispetto al 1963, oggi i cittadini eleggono i consigli regionali e comunali.

Una delle ragioni dei sostenitori del sì è quella di portare la rappresentanza politica in Italia su livelli europei. Ha senso paragonare il parlamento italiano ad altri parlamenti europei presupponendo che questi siano migliori e più efficienti?

Secondo me non ha senso. Non bisogna fare dei paragoni con altri paesi o altre democrazie, astraendo completamento dal contesto. Anche perché le due camere italiane formano un sistema di bicameralismo perfetto, che all’estero non esiste.

Riducendo il numero dei parlamentari migliorerà la qualità dell’azione legislativa? Oppure in proporzione la percentuale dei parlamentari assenteisti e nullafacenti rimarrà la stessa?

Io auspico che possa migliorare l’efficienza della commissioni parlamentari. Saranno formate da un numero ridotto di membri, invece dei trenta attuali, e questo favorirà una maggior organizzazione e dialogo. Ovviamente la qualità dei parlamentari non dipende dal numero: potremmo persino raddoppiare il numero attuale e non cambierebbe nulla. Sono gli elettori che possono migliorare la qualità degli eletti, facendo una scelta consapevole quando si recano alle urne. La speranza è che, avendo meno parlamentari eletti, le forze politiche scelgano una classe dirigente migliore e più preparata.

Per migliorare la qualità degli eletti non sarebbe stata sufficiente una riforma elettorale che non prevedesse liste bloccate?

Sicuramente questa è la via maestra. In questo senso, c’è già una proposta di legge presentata da Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera. La legge elettorale, che necessariamente dovrà sommarsi al taglio del numero dei parlamentari, merita un discorso a parte. In linea con la riforma costituzionale, si dovrà prediligere un sistema proporzionale che permetta ai cittadini di scegliere la singola persona sul territorio, attraverso le preferenze. Il listino bloccato mina la fiducia che i cittadini hanno nelle istituzioni: per migliorare la qualità dei rappresentanti si deve dare agli elettori la possibilità di sceglierli.

Essendo un intervento puntuale e mirato, si può dire che il referendum costituzionale non stravolga la costituzione e di conseguenza non metta in pericolo la tenuta democratica del paese?

Non c’è questo rischio. È una riforma precisa e puntuale, a differenza del referendum costituzionale del 2016. È questo l’unico modo possibile per intervenire sulla Costituzione senza il rischio di stravolgerla. Il grande pregio di questo referendum è che non si chiede ai cittadini di votare una miriade di riforme e provvedimenti con un singolo sì o un singolo no. Si chiede di votare una modifica chirurgica.

Non essendo per ora accompagnato da altri interventi (regolamento delle camere, riorganizzazione delle commissioni, riforma elettorale) il referendum non rischia di essere un provvedimento isolato e privo di un impatto significativo?

Votiamo una riduzione dei parlamentari del 30%, non è una modifica da poco. Certo, nel caso di vittoria del sì, bisognerà necessariamente redigere una nuova legge elettorale. Elaborarla e votarla prima del voto referendario sarebbe stato poco utile: come sappiamo purtroppo bene, le leggi elettorali si fanno e si disfano.

Uno dei grandi temi della riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, era il superamento del bicameralismo perfetto. Si diceva allora che la lentezza del processo legislativo fosse dovuta a due camere incaricate di svolgere la stessa funzione. Cosa cambia con questa nuova riforma costituzionale? Il bicameralismo non è più un problema?

Bisogna ben distinguere le due cose. L’efficienza a cui mira questa riforma è quella delle commissioni parlamentari. Il sistema bicamerale, invece, non è al centro di alcun cambiamento e anzi deve essere rivalutato, a partire dalla sua ratio: garanzia della tenuta democratica. Prendiamo ad esempio ciò che accade oggi: rispetto ad una maggioranza piena alla Camera, al Senato i numeri sono più risicati e ciò costringe le forze di governo a scendere a compromessi, accordandosi meglio. Il sistema bicamerale in realtà migliora la tecnica legislativa: il passaggio di una legge in due camere garantisce un controllo più approfondito e maggiore aderenza alla volontà dei territori.

Riducendo il numero dei parlamentari – e dunque dando più potere a meno persone – non si rischia di creare una “casta” politica ancora più forte?

Non c’è questo rischio. Sarà fondamentale la scelta che faranno i cittadini, scegliendo rappresentanti veramente locali e distanti dai centri di potere. Bisogna poi tenere presente che i veri centri di potere sono quelli che esprimono una comunanza di interessi – come nel caso del baronaggio -, cosa che non accade in Parlamento.

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Perdutamente affascinato dalla domanda che il pastore errante dell'Asia non riesce a trattenere di fronte al cielo stellato: «Che fai tu Luna in ciel?». È lo stupore il sale della vita! Amante della realtà in tutte le sue sfaccettature: continuamente teso alla ricerca della meraviglia e dell'infinito. Acerrimo nemico dell’indifferenza e terribilmente curioso, assetato di conoscenza, inguaribile ottimista. Scrivo per andare oltre, al cuore della realtà.

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