Possiamo ancora salvare Internet?

Dopo la chiusura del profilo Twitter di Donald Trump si è riaperta la discussione sul futuro dei social: che ruolo può avere ognuno di noi?

In realtà il titolo di questo pezzo dovrebbe essere Possiamo ancora salvare i social?, ma forse vale la pena allargare un po’ il discorso. Partiamo dai fatti: il profilo Twitter personale di Donald Trump, ovvero il suo canale di comunicazione principale, è stato unilateralmente chiuso. Le motivazioni dietro a questa decisione sono evidenti: il presidente degli Stati Uniti è accusato di aver fomentato tramite i propri canali social – non solo Twitter, ma anche Facebook – la folla di estremisti che il 6 gennaio ha letteralmente invaso il Congresso e di averlo fatto condividendo notizie palesemente false. La chiusura dell’account è soltanto l’apice di uno scontro che si consuma da ormai diversi mesi, che ha visto prima Twitter e poi Facebook diventare censori delle affermazioni del cosiddetto “uomo più potente del pianeta”, suscitando di volta in volta l’insofferenza di chi crede fermamente nella rete, intesa come tempio della libertà di parola.

In un articolo apparso su The Wise Magazine Michele Da Re ha riassunto nel dettaglio la situazione, spiegando le posizioni di chi è a favore e di chi è contro il ban inflitto a Donald Trump e arrivando alla conclusione che si sia trattato di una scelta giusta. La questione è interessante per un motivo in particolare: la sovrapposizione ormai dilagante tra i social e la rete. Quasi come se Facebook, Instagram e simili rappresentassero la totalità delle possibilità offerte da Internet. Un errore interpretativo talmente diffuso che più di qualcuno di fronte alla chiusura del profilo di Donald Trump è saltato sulla sedia gridando all’attentato contro la libertà d’espressione. Chiariamo due cose. In primo luogo, Twitter ha preso una decisione legittima e non contestabile dal punto di vista giuridico: è una società privata, con regole interne che chi utilizza la piattaforma è chiamato a rispettare. In secondo luogo, Twitter – e più in generale i social – non sono la rete, ma soltanto una minima parte di essa. Finché esisteranno nella rete altri canali attraverso cui far sentire la propria voce, la libertà d’espressione non sarà mai in pericolo. Ma c’è un ma.

Più che il freedom of speech, è diventato chiaro che in quest’era dell’informazione a essere rilevante è il freedom of reach, cioè quanto lontano arrivano i contenuti e le idee quando vengono rimbalzati in giro per la rete. I social network, che funzionano grazie alla diffusione algoritmica dei contenuti, sono in grado di regolare facilmente, come un rubinetto, la freedom of reach dei loro utenti.

Michele Da Re, Perché è giusto bannare Trump, su The Wise Magazine, 09/01/21

Fuori dai meccanismi dei social, è molto più difficile emergere: tutti possono parlare, ma soltanto alcuni tengono in mano un megafono. Un megafono che – come è appena accaduto – chi gestisce i social può zittire a piacimento. Attenzione: lo può zittire, ma non lo può dare. Chi è che consegna ad un personaggio pubblico il megafono? Siamo noi utenti, con i nostri mi piace, le nostre condivisioni, persino le nostre semplici visualizzazioni. Dunque, chi sta imputridendo Internet?

Alla base di tutto c’è la scomparsa del “lei”. Sui social ci siamo abituati a dare del “tu” al mondo, abbiamo imparato a trattare i personaggi pubblici come fossero nostri personali vicini di casa. Questo meccanismo da un lato scatena il giudizio libero ai danni del primo malcapitato, che vede comparire sul proprio profilo sfilze di commenti negativi privi di filtro, dall’altro ci porta a prendere ogni affermazione alla leggera. Come se a dirla fosse stato un nostro amico al bar. In un attimo tutto perde valore: le proteste si fanno e si disfano in una giornata, ci si raduna e ci si ammassa per gioco, gli insulti infiammano il dibattito e si spengono subito dopo. A tal punto che marciare armati fin dentro il Congresso degli Stati Uniti per scattarsi un selfie può sembrare una buona idea, un atto privo di qualsivoglia conseguenza.

Che c’entra questo con il “lei”? Tra noi e i personaggi pubblici, specialmente quelli che ricoprono cariche di potere, dovrebbe tornare ad esserci una sacrosanta intermediazione. Non possiamo continuare a trattare il presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte come un amministratore di condominio o il presidente degli Stati Uniti Donald Trump come il bullo della classe, perché altrimenti prima o poi finiranno per comportarsi esattamente così. Siamo noi stessi i responsabili dello svilimento generale. Possiamo nasconderci dietro impalpabili algoritmi, ma siamo noi utenti a decidere chi avrà il megafono. O recuperiamo la capacità di guardare la realtà da una prospettiva distaccata, cioè con spirito critico, o la battaglia per Internet sarà persa per sempre.

Liquidare i fatti di Washington come opera di un manipolo di estremisti è vero e limitante al tempo stesso. Non dobbiamo dimenticare che tutti noi usiamo male i social, tutti noi contribuiamo al rapido imputridimento della rete, perché abbiamo smesso di dar valore alle parole, alla conoscenza e soprattutto ai ruoli. E se tutti siamo coinvolti, vale ancora la logica secondo cui i social – e più in generale la rete – sono un ottimo strumento usato male?

A che serve un blog al giorno d’oggi? Per l’informazione rapida ed immediata c’è Twitter, all’approfondimento ci pensa Facebook con la sua miriade di opinionisti, anche se in fondo quel che più ci interessa è ciò che fanno gli altri su Instagram e Tik Tok. E se proprio non abbiamo voglia di leggere, ci sono i video di YouTube. A che serve un blog nel mare di parole e immagini che quotidianamente si riversa nei nostri smartphone attraverso Internet? Un blog serve per gli assetati.

Un nuovo sito, per tutti gli assetati, Cogito et Volo, 07/01/2020

Ce lo chiedevamo esattamente un anno fa, mentre inauguravamo il nostro nuovo sito, ammodernato nella veste e nei contenuti. Vi dev’essere piaciuto, perché in tanti ci avete seguito e in tanti vi siete aggiunti alla nostra famiglia. A che serve un blog come il nostro? A salvare Internet. A riguadagnare prospettiva. Ad andare in profondità, con spirito critico. Guardando ai fatti di Washington e a tutto ciò che ne è seguito, anche in rete, vogliamo riaffermare chiaramente un principio: rispetto a tutto quello, noi siamo altra cosa.

Le pubblicazioni su Cogito et Volo ripartono da domani. Il nuovo anno è sempre occasione di buoni propositi e ottimismo, consuetudini che nel 2021 sono più sentite che mai. Noi abbiamo preferito evitarle, visto l’aria che tira, e rifugiarci in un nostalgico e scanzonato ricordo del passato appena passato, quegli anni Duemila che per molti del nostro team sono stati un tempo dorato di adolescenza e spensieratezza. Tenetevi pronti per il nostro personale throwback. Recuperata la serietà, dedicheremo l’ultima settimana di gennaio ad un approfondimento a tema scientifico, parlando di Covid-19, vaccinazioni e molto altro. E per il futuro? Abbiamo tante idee in programma, dal classico speciale dedicato agli Oscar – che quest’anno si terranno il 25 aprile – ad una serie di pubblicazioni a tema Sanremo, per seguire insieme a voi sul blog e sui social l’evento culturale – ahinoi – più chiacchierato in Italia. Insomma, si ricomincia.

A gennaio 2020 avevamo salutato il nuovo anno con una frase forse profetica, ce la ripetiamo oggi, che sia di buon augurio, per tutti noi.

Se i social network sono le nuove piazze, un blog – questo blog – è come il caffè per gli illuministi: un luogo dove incontrarsi, dibattere, vagliare nuove idee, ripensare il proprio passato e porre le fondamenta per il futuro.

Un nuovo sito, per tutti gli assetati, Cogito et Volo, 07/01/2020

Immagine di copertina tratta da Twitter.

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Cogitoetvolo è un sito rivolto a chi non accetta luoghi comuni, vuole pensare con la propria testa e soprattutto essere protagonista del presente.

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