L’ambientalismo che spaventa

Tra auto elettrica e incentivi alle emissioni, quali sono le questioni nell’aria

L’ambientalismo è un argomento fondamentale per l’intero occidente da quando si ha memoria. Basti pensare alla retorica dell’epoca dell’ora, dove gli uomini non intaccavano minimamente il suolo, o più sul pratico le politiche contro la disboscamento messe in atto nel Medioevo.
Ma con l’industrializzazione si è raggiunto un nuovo livello di paura, che tira in ballo le emissioni gassose, la gestione dei rifiuti al consumo e degli scarti produttivi.
Chi sta scrivendo non ha alcun titolo per farlo in termini tecnici di riscaldamento globale, in quanto assente delle nozioni indispensabili per scindere gli studi credibili da quelli errati, però ci sono alcuni aspetti industriali piuttosto chiari nell’aria, capaci di toccare molto l’economia italiana.

Se il policy maker italiano ritenesse opportuno operare in chiave ambientalista sulle politiche fiscali, cosa dovrebbe fare?
Sarebbe necessario incentivare il rinnovo degli impianti verso soluzioni energeticamente più efficienti, regolamentare determinate pratiche, favore la ricerca privata con sgravi fiscali e, dove possibile, applicare imposte pavloviane.
Quest’ultima misura è quella più sconveniente da applicare per il governante, in quanto rischia di aumentare la pressione fiscale per i contribuenti e i prezzi per i cittadini (un’azienda che non può o non vuole ridurre le esternalità negative dovrà di fatto pagare più tasse se in un sistema concorrenziale, mentre nel caso di un cartello o un monopolio alzerà il prezzo del prodotto e/o servizio), ed è anche quella di cui è opportuno parlare.
Questo perché senza il bastone, non è detto che la carota sia sufficientemente appetitosa, come non è detto che si voglia necessariamente rinnovare degli impianti vecchi ma funzionanti. In Italia il problema si aggrava ancora di più perché l’applicazione di tali imposte richiederebbe in primo luogo l’eliminazione degli incentivi all’inquinamento, che toccano miliardi di euro e sono funzionali all’abbassamento arbitrario della pressione fiscale verso determinati settori, al fine di mantenerne la competitività.
Dal punto di vista del mondo produttivo italiano le difficoltà endogene dell’ambientalismo sono gestibili, grazie all’assetto proprietario e amministrativo dei principali giornali italiani (inchiesta piuttosto vecchia ma ancora valida, nonostante il cambio di diversi nomi negli anni), che garantisce la pluralità delle voci, purché non argomentino troppo bene contro industria e finanza.
Ma l’ambientalismo ha anche problemi esogeni.

Non si può negare che le politiche ambientaliste tendano verso l’autarchia, basti pensare agli sforzi tedeschi per le energie rinnovabili, meno efficienti e più costose di altre fonti ma che garantiscono una minore dipendenza dai fornitori stranieri di materie prime.
Questo perché per la Germania è diventato vitale mantenere in attivo la bilancia commerciale (differenza fra export e import) nonostante il prevedibile calo dell’export conseguente alle politiche americane.
Un calo dell’export comporta un calo della produzione, che porterebbe ad una minore necessità di addetti nell’industria, con conseguente squilibrio nel sistema pensionistico a ripartizione.
In questa circostanza, l’unica possibilità per mantenere alto il numero degli addetti è internalizzare la produzione di beni e servizi precedentemente importati. E qui si parla di auto elettrica.

Si sa che la filiera dell’auto tedesca ha forti legami con i produttori italiani, in quanto il territorio della penisola è estremamente competente nella meccanica di precisione, necessaria alla produzione della componentistica.
Ciò significa che all’aumentare della produzione automobilistica tedesca (in realtà non solo quella automobilistica, ma prendiamo in considerazione solo il caso in questione) aumenta anche la produzione italiana di componentistica.
Un’auto comprende diverse migliaia di componenti (una FAQ sul sito di Toyota dice addirittura 30.000), mentre un’auto elettrica, in termini ingegneristici, è decisamente meno complessa.
La conversione green delle vetture porterà ad una riduzione netta del fabbisogno componentistico nell’industria dell’auto, con le ricadute del caso su chi è specializzato in quella filiera.
La Germania cosa farà a questo punto? Cercherà di sviluppare internamente la componentistica, affiancando a ciò un potenziamento delle Telco con lo scopo di poter associare alle auto elettriche un sistema di guida automatica, in modo che l’occupazione rimanga alta e il sistema pensionistico non collassi.

Per queste ragioni le parole “ambientalismo” e “cambiamento climatico” fanno così tanta paura agli industriali italiani, e sempre per questo il fenomeno Greta Thunberg è stato preso tanto alla lontana fin dall’inizio dai giornali italiani, nonostante il peso sui media esteri che ha spinto i Verdi tedeschi ad esplodere nei seggi.
Il treno green è partito, coi suoi pro e i suoi contro, ora è solo da capire se saremo in grado di salirci sopra o se ci limiteremo a lamentarci da sdraiati sulle rotaie.

Chioggiotto, studente, alle volte lavoratore.

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