Femminicidi in Italia

Organi ufficiali e autorevoli come l’Istat e il Viminale confermano costantemente che i crimini sono in diminuzione, in particolare gli omicidi e i reati violenti – indicatori tipici della sicurezza di un Paese – si trovano ai minimi storici, anche per i femminicidi. Non solo, l’Italia è considerata a livello mondiale uno dei luoghi più sicuri. La domanda che sorge spontanea è: per quale motivo, nonostante le evidenze statistiche, si parla da diverso tempo di un diffuso clima di insicurezza per le donne? E quale ruolo gioca il patriarcato, spesso descritto come un sentimento atavico, nel dipingere gli uomini come criminali seriali? E infine, proviamo a rispondere alla domanda: “a chi conviene il governo della paura?”

Femminicidio

Cerchiamo di riflettere un attimo, evitando di lasciarci guidare dalle emozioni istintive alimentate da informazioni eccessive provenienti da giornali che dipingono scenari catastrofici basati sugli eventi recentemente accaduti. I dati relativi al femminicidio sono chiari, e una valutazione delle fonti e dei dati suggerisce che il problema potrebbe non essere di natura esclusivamente sociale o culturale italiana.

Procediamo in modo ordinato, riportando alcune definizioni di femminicidio:

Internazionali

1)  la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia. (Marcela Lagarde)

2)  Il concetto di femminicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. (Diana H. Russell)

Italiane

3)  è l’uccisione di una donna in quanto donna. Si parla di femminicidio ogni volta che una donna viene ammazzata per non aver rispettato lo stereotipo di donna, per non essere rimasta al suo posto, per aver voluto essere indipendente in un mondo che ci dice che le donne sono proprietà di qualcuno. (Irene Facheris)

4)  è la violenza contro le donne in tutte le sue forme miranti ad annientare la soggettività sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale, che solitamente precede e può condurre all’omicidio. (Santilli, Petruccelli, Legge, Prosperi)

5)  Condotta violenta da parte di un uomo contro una donna “in quanto donna”, condotta che provochi la morte. Il termine include tutte quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito o la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali o condotte violente sessiste, motivate da un senso di legittimazione e/o superiorità degli uomini sulle donne, o di una presunzione di possesso sulle stesse e che oggi la coscienza collettiva per lo più considera il fenomeno culturale del dominio maschile sulle donne. (Monzani)

Definizioni

Osservando le prime due definizioni, è possibile notare come il femminicidio venga descritto come un crimine che va oltre la mera dimensione privata, coinvolgendo l’intera società. Tuttavia, è importante sottolineare che tali definizioni si riferiscono a fenomeni distanti dall’Italia, in quanto descrivono situazioni estere o storiche. In particolare, la definizione di Marcela Lagarde fa riferimento a un dramma verificatosi in Messico, mentre quella di Diana H. Russell descrive un fenomeno che ha avuto luogo storicamente a livello globale e che persiste ancora oggi in alcune parti del mondo. Di conseguenza, queste definizioni risultano poco adatte a descrivere il fenomeno del femminicidio in Italia.

La definizione fornita dalla nota attivista Irene Facheris appare invece imprecisa e intrinsecamente legata a un’ideologia femminista marcata, ma risulta poco adatta a rappresentare e descrivere la realtà, in quanto manca di supporto da parte di fatti concreti, è nebulosa e sovrappone diversi fenomeni che difficilmente si applicano alla situazione italiana.

Le ultime due definizioni, al contrario, considerano maggiormente l’esperienza del nostro paese, basandosi su ricerche empiriche del fenomeno. In particolare, la definizione del criminologo Monzani risulta essere la più dettagliata e precisa, in quanto più in linea con la letteratura criminologica.

Il culmine di una escalation

Il femminicidio sarebbe quindi l’uccisione di una donna a causa della sua appartenenza di genere, rappresentando l’atto conclusivo di un’escalation violenta in cui altre forme di violenza si sono manifestate prima dell’omicidio. È importante distinguere chiaramente questo concetto dall’uccisione di una donna non motivata dalla sua appartenenza di genere, ma da altre cause sostituibili (ad esempio, una donna uccisa durante una rapina). La distinzione appena esposta è un concetto puramente medico-legale utilizzato per differenziare il cadavere maschile da quello femminile.

Inoltre, è importante evitare di cadere nel tranello di adottare concetti nati per descrivere fenomeni in altri paesi nel tentativo di delineare la situazione europea o italiana. In altre parole, per comprendere se le cause dei femminicidi abbiano una natura culturale o meno, è necessario escludere le narrazioni che si riferiscono a contesti diversi.

Dati e numeri

L’Italia si colloca al di sotto della media dell’Unione Europea per quanto riguarda il numero di femminicidi. A livello mondiale, il Paese mantiene una posizione costantemente bassa nella classifica. Il fenomeno che stiamo osservando evidenzia una progressiva riduzione, in linea con la tendenza generale dei reati violenti, e questo trend si riscontra anche a livello europeo. Tale andamento rappresenta chiaramente un segnale positivo per la società italiana.

Ciò chiarisce inequivocabilmente che non stiamo affrontando un’emergenza: un’emer-genza ha una durata transitoria. Questo non implica una minimizzazione della gravità del fenomeno, ma sottolinea che non è corretto affermare che i femminicidi stiano aumentando in modo allarmante.

La grande incomprensione del fenomeno, al quale viene erroneamente attribuita una caratteristica di emergenza, deriva dal fatto che, nonostante la diminuzione complessiva degli omicidi, la riduzione percentuale degli omicidi con vittima femminile è inferiore a quella degli omicidi con vittima maschile. Ciò fa sì che, diminuendo il denominatore, il fenomeno sembri addirittura in aumento in termini percentuali, cosa che, in realtà, non è veritiera a livello assoluto.

Analisi specifica del 2022

Proviamo ora ad analizzare in dettaglio i numeri dei cosiddetti femminicidi per l’anno 2022, considerando la definizione fornita da Monzani.

Questo tipo di verifica è sostanzialmente replicabile da chiunque. Tuttavia, effettuare questa analisi non è un compito agevole. Recuperando i dati singoli, la prima difficoltà risiede nel fatto che gli enti preposti alla raccolta di tali informazioni forniscono numeri diversi, evidenziando chiaramente una mancanza di uniformità nella definizione di cosa costituisca un femminicidio. Inoltre, i dati forniti non vengono disaggregati, rendendo complesso analizzare ogni singolo numero riportato.

Per tentare questa analisi, utilizzeremo il sito dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) per la raccolta del dato in modo più ufficiale, e il sito femminicidioitalia.info per l’analisi dettagliata, poiché riporta l’elenco di tutte le vittime del 2022. Secondo l’Istat, ci sono genericamente 126 omicidi di donne, di cui 106 sono classificati come femminicidi, mentre il sito femminicidioitalia.info riporta un dato di 124 femminicidi.

Analizzandoli uno per uno direttamente dal sito, possiamo osservare che una consistente percentuale, quasi il 20%, è stata compiuta con un movente di tipo economico. Il 15% degli omicidi sarebbe stato perpetrato da soggetti con disturbi psichiatrici o alterazioni psicofisiche derivanti dall’assunzione massiccia di droghe o alcol. Un dato interessante riguarda gli omicidi di pietà, commessi da persone molto anziane e con gravi patologie, nei confronti della partner, anch’essa molto malata e anziana, rappresentando 14 casi sul totale. Sette casi di cosiddetti “femminicidi” sarebbero stati commessi da una donna.

Conclusioni

Sembra quindi evidente che, nell’analisi complessiva, il numero effettivo di femminicidi, considerando la definizione criminologica del fenomeno, sarebbe in realtà molto inferiore. Addirittura, nel conteggio viene incluso un caso di omicidio stradale. L’obiettivo  non è minimizzare il fenomeno dell’uccisione di donne, ma piuttosto trattarlo con una prospettiva realistica per inquadrare correttamente la sua portata. È importante notare che, escludendo i cosiddetti femminicidi, rimarrebbe comunque un numero di 40 casi che necessitano di ulteriori analisi per determinare il movente effettivo.

Inoltre, una considerevole parte di questi casi rimanenti è commessa da stranieri, il che ulteriormente indebolisce la teoria secondo cui in Italia esiste una cultura patriarcale che spinge all’uccisione delle donne, visto il ridotto numero di casi e la provenienza degli autori degli omicidi.

Un problema italiano?

I dati escluderebbero dunque l’esistenza di un problema tipicamente italiano per quanto riguarda i femminicidi, potrebbero invece porre maggiormente l’accento sul carattere relazionale piuttosto che su quello di genere. Gli omicidi di donne sembrerebbero essere riconducibili più a omicidi relazionali che a femminicidi intesi come uccisioni di donne “in quanto donne”.

Omicidi relazionali

La violenza e l’omicidio sembrano derivare da legami affettivi stabili tra l’autore e la vittima, indipendentemente dal genere. Le tensioni interpersonali e intrafamiliari sono responsabili della generazione della violenza, culminando, in situazioni estreme, nell’omicidio. L’autore, affrontando sensazioni di impotenza, fragilità e precarietà, potrebbe rispondere con la violenza quando non riesce a trovare alternative razionali alla frustrazione, umiliazione o depressione, considerando gesti estremi come unica soluzione possibile. Quando un individuo con una forte predisposizione individuale si trova in tale contesto e le agenzie di controllo sociale sono inefficaci o assenti, si può assistere prima a atti di violenza e successivamente a episodi di omicidio.

L’elemento culturale di matrice patriarcale, come spesso evidenziato di recente, sembra avere un ruolo marginale nella realizzazione di un omicidio perpetrato nei confronti di una donna. La vittima, quindi, non è considerata fungibile in base al genere, ma diventa suscettibile di violenza in qualsiasi tipo di relazione con l’autore, che possa essere la sorella, la madre, la figlia, la fidanzata, la moglie, eccetera. Questa prospettiva suggerisce che l’omicidio si configuri come un meccanismo attraverso il quale l’autore cerca punizione e liberazione dalla sofferenza e dalle tensioni subite, piuttosto che essere determinato principalmente da dinamiche culturali patriarcali.

Inquadrare correttamente

È essenziale stabilire, circoscrivere e descrivere correttamente il fenomeno, poiché questo rappresenta l’unico modo per implementare contromisure efficaci per ridurne l’incidenza. Il circo mediatico a cui abbiamo assistito in questi giorni non fa altro che causare danni, poiché non sarà possibile trovare soluzioni con un’errata comprensione del problema. Le reazioni, non solo mediatiche, provenienti anche dalla politica risultano altrettanto sbagliate. Negli ultimi 10 anni, la legislazione italiana ha prodotto leggi ogni due anni per contrastare la violenza sulle donne e il femminicidio, con misure sempre più restrittive. Ciò implica che la normativa esistente è già molto ampia e dettagliata. Introdurre nuove normative che complicano ulteriormente il lavoro delle procure e dei tribunali sarebbe del tutto inutile e potrebbe addirittura essere dannoso

Sembrerebbe che una protezione speciale basata unicamente sulla differenza di genere non abbia una giustificazione solida, considerando l’inconsistenza dei dati che confermano un’incidenza statistica significativa nei casi di femminicidio. Come evidenziato precedentemente, ciò che caratterizza i “femminicidi” in Italia non è tanto il genere, ma piuttosto la natura della relazione tra autore e vittima.

La motivazione di genere

Si potrebbe quindi dedurre che non dovremmo classificare tutti gli omicidi dolosi in cui la vittima è una donna e l’autore è un uomo come femminicidio, ma piuttosto riservare tale definizione solo a quei casi in cui vi è una chiara motivazione di genere, rilevante anche in assenza di una specifica relazione tra autore e vittima. Proviamo a chiarire con un esempio: se una donna lascia il proprio fidanzato e viene uccisa da quest’ultimo, il genere della vittima sarebbe del tutto irrilevante, e pertanto non si tratterebbe di femminicidio (omicidio in quanto donna). In realtà, è all’interno della specifica relazione che si possono individuare i motivi che hanno spinto l’agente a commettere l’omicidio.

Se si considerasse il femminicidio come un problema di natura sociale e culturale, sembra che le soluzioni dovrebbero essere ricercate principalmente attraverso politiche volte alla civilizzazione culturale, piuttosto che mediante una maggiore legislazione in ambito penale o processuale penale. I dati indicano che questa potrebbe essere la direzione più efficace da seguire. È evidente che occorrerebbe continuare a promuovere politiche che mirano a un cambiamento culturale. Alla luce delle analisi condotte, emerge chiaramente che i cosiddetti femminicidi sono per lo più motivati da cause di natura individuale e dinamiche che si sviluppano nell’ambito familiare e interpersonale, come evidenziato dagli omicidi connessi a relazioni personali, anziché essere il risultato di cause sociali o culturali legate al patriarcato.

Perché escludere l’elemento marginale del patriarcato?

Ritorniamo con le definizioni, questa volta riportiamo la definizione data dalla Treccani del patriarcato: “In antropologia, tipo di sistema sociale in cui vige il ‘diritto paterno’, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. La famiglia estesa dominata dal patriarca sarebbe stata, secondo alcuni antropologi evoluzionistici dell’Ottocento (H.J.S. Maine, N.-D. Fustel de Coulanges), l’istituzione centrale della società primitiva basata sulla parentela. Essa avrebbe formato un gruppo corporato che reclutava i propri membri per agnazione (discendenza per linea maschile). Questa tesi fu ripresa da S. Freud, secondo il quale la società umana ebbe origine dall’orda patriarcale dominata dal padre o dal maschio più anziano.

Per cultura: 1) l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio. 2) Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico.

Ipotizzare che il problema dei “femminicidi” sia di natura culturale risulta piuttosto difficile alla luce dei dati sopraesposti, e delle definizioni appena evidenziate, poiché la cultura rappresenterebbe quell’insieme di valori e pratiche condivise. Sostenere oggi che in Italia esista un sistema che tramandi di generazione in generazione la possibilità di uccidere una donna in quanto tale sembrerebbe poco plausibile, poiché, se così fosse, i numeri dovrebbero essere ben più allarmanti di quelli letti finora.

Il patriarcato

Anche se si eludesse l’ipotesi di una natura culturale totale per il Paese Italia e si volesse contestare l’esistenza di una sottocultura che professi questo fenomeno, ciò implicherebbe l’esistenza di gruppi stabili diffusi in tutto il territorio, ma sarebbe chiaramente da dimostrare. Anche un ipotetico nesso causale tra patriarcato e omicidio richiederebbe una dimostrazione, non essendoci alcun nesso causa-effetto.

Il patriarcato è un’esperienza storica conclusa; gli assetti sociali e l’impostazione culturale di questo tipo sono stati superati grazie alle battaglie degli anni ’70 e ’80. Da allora, sono stati compiuti enormi progressi, e la nostra società continua a migliorare, orientandosi sempre di più verso il valore della libertà. Per sradicare completamente, se mai fosse possibile, gli strascichi di questa “cultura”, ciò che serve è il tempo per cambiare le cose, e la direzione intrapresa è quella giusta.

In realtà, l’unica cosa che potrebbe essere accettabile, ma comunque da dimostrare, sarebbe che il fattore ambientale (patriarcato) costituirebbe il fattore decisivo per i soggetti che hanno una predisposizione individuale al femminicidio. Nonostante questo, andrebbe dimostrato anche un nesso di causa specifico per cui l’esistenza di una “società patriarcale” genera femminicidi. Ad ogni modo, qualunque possa essere la lettura, è da escludere che le cause possano essere riconducibili esclusivamente al patriarcato.

Per di più indicare una ragione diversa dal vero movente dell’autore del reato non solo è irrispettoso nei confronti della vittima, ma arreca anche dolore ai familiari, privandoli della verità e della giustizia riguardo a ciò che è realmente accaduto.

Numero oscuro

Per “dark number” intendiamo la discrepanza rilevata tra il numero di denunce ricevute e la reale estensione del fenomeno. Si ritiene che, poiché la violenza di genere presenta un dark number elevato, i cittadini percepiscano la violenza e temano i rischi in modo sproporzionato rispetto alla sua consistenza effettiva, al di là dei dati statistici. Tuttavia, ciò è poco probabile. L’allarme sociale non era altrettanto elevato anche in periodi in cui le statistiche potevano essere più preoccupanti. Ciò diventa ancor più evidente considerando che la misurazione della criminalità si basa su fattori oggettivi, mentre la percezione della paura è influenzata da fattori di natura soggettiva.

Ricollegandoci a questo aspetto, è ormai evidente che i media, sia tradizionali che non, alimentano fortemente le insicurezze percepite. L’effetto è il bombardamento mediatico, e il risultato è la preoccupazione perché tutti ne parlano. Questo approccio, come ben noto, non permette di affrontare i temi in modo oggettivo. Benché crimini come omicidi e violenze siano gravi, i numeri sono marginali, ma l’amplificazione mediatica può farli sembrare pervasivi e costanti.

Il quadro si aggrava con la costante enfatizzazione di fatti di cronaca nera e la spettacolarizzazione attraverso programmi televisivi e spazi web, generando un senso più diffuso di ansia. Questo impatta particolarmente su individui fragili e suscettibili, come anziani confinati davanti alla TV o giovani immersi in Instagram e TikTok. Per loro, TV e web diventano l’unico canale di informazione, ma spesso distorsivo della realtà.

Influencer e politici

A gettare ulteriore benzina sul fuoco sono i nostri amati politici, che spesso si improvvisano grandi commentatori generando così ulteriore sfiducia attraverso dichiarazioni irresponsabili.

Affermare con enfasi che la percezione di insicurezza è giustificata significa chiaramente conoscere il problema in modo superficiale, o ancor peggio, conoscerlo ma agire in malafede. Non sarebbe più opportuno prendersi un momento e spiegare razionalmente, cercando di assistere i cittadini nel processo di aumentare il grado di civilizzazione (vero strumento per contrastare la violenza)?

È evidente che l’insicurezza generale, l’ansia e la paura non siano sentimenti che sorgono in modo casuale. È più probabile che un’asimmetria tra l’oggettivo e il soggettivo emerga consapevolmente. Ciò che accade è che le insicurezze irrazionali si proiettino sul piano razionale, identificando un pericolo concreto, come ad esempio il patriarcato, gli uomini/maschi o le “ancelle del patriarcato”, attribuendogli un nome e un cognome. Trovare un nemico concreto da abbattere consente di eludere la necessità di affrontare le insicurezze personali.

A chi conviene il governo della paura?

Alimentare una guerra tra gruppi non può fare altro che aumentare tensioni e ansie sociali, laddove una parte inquadra un nemico concreto come male assoluto. Il colpevolizzato, che per di più si trova in una situazione di instabilità sociale, potrà reagire alle accuse infamanti come risultato della frustrazione.

I media e presunti esperti/influencer mirano chiaramente a generare insicurezza per favorire i propri interessi economici o di prestigio sociale, cercando più visualizzazioni, condivisioni e follower. Anche la politica non si esime da questo gioco, con partiti che adottano narrativi esagerati per guadagnare consensi e altri che, sfruttando storie catastrofiste, giustificano norme sempre più restrittive.

Va bene cercare di contrastare la violenza, la violenza di genere, i femminicidi o eventuali colpi di coda del patriarcato, ma dobbiamo comunque fare attenzione a non distruggere dall’interno le fondamenta del nostro Stato, dei nostri valori costituzionali e dei principi fondamentali. Per troppi giorni abbiamo assistito a proclami di sospensione della Costituzione o di basilari principi giuridici conquistati con anni di battaglie. Questo tipo di narrazione non può più trovare spazio, né sui media né a livello istituzionale.

Parallelismi

Il clima di odio e diffusione di notizie allarmanti, falsità e narrazioni distorte ricorda molto un periodo recente e oscuro della nostra Italia: gli anni in cui la Lega e Salvini, con il suo metodo definito poi la “Bestia“, cercava di attirare consensi spargendo odio e fornendo informazioni false sugli immigrati, con l’appoggio di diversi media. Il risultato fu sorprendente, con l’ottenimento di percentuali di voti enormi e la nascita di nuovi influencer e scrittori pronti a vendere i propri libri e video su Facebook e Instagram. All’epoca ci fu però anche una significativa levata di scudi che riuscì a non far deragliare ulteriormente la nostra democrazia.

La domanda però ritorna sempre: a chi conviene il governo della paura?

Bibliografia

M. Monzani, Manuale di criminologia, 2016.

S. Ciappi, Manuale di criminologia, 2021.

I. Facheris, Parità in pillole. Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane, 2020.

A. M Casale, P. De Pasquali, M. S. Lembo, Vittime di crimini violenti, 2014.

Per altri dati e fonti trovate i link direttamente nel testo.

In copertina Foto di Ron Lach.

Sono nato a Brescia nel 1994. Laureato in Giurisprudenza, lavoro in banca, pratico Muay Thai, mi interesso di criminologia, diritto, economia, storia e cinema. Scrivo per diletto, per passione e offrire un punto di vista personale rispetto a quello che ci circonda.

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