Abbattimento

Una pietra un po’ meno grigia dell’asfalto, un’esistenza appena rischiarata da un prodigio: due facce della stessa realtà, sotto il segno di un’emozione

Il sasso rotolò lontano, ticchettando impercettibilmente sull’asfalto.

Passarono pochi secondi, e la pietruzza si trovò nuovamente a rotolare fra il grigio e il bianco di quella strada deserta, chiedendosi quale destino l’avesse scelta come capro espiatorio per la noia esistenziale di quel ragazzino.
La scarpa la colpì per la terza volta, avverando puntualmente il fatidico proverbio.
«Nullità», borbottò l’umano, fissando il cielo delle cinque del mattino e la luce scialba che colpiva le cose quasi senza energia, come si sentiva lui.
Eppure, aveva lo stesso la forza di strusciare la pianta del piede contro quel povero sasso, che aspettava paziente di essere liberato dalla pressione di quei cinquanta chili scarsi.

«Ciao grissino, come va?»
«Non ci eravamo accordati su Stecchino, ieri?»
«Luca, sei rimasto indietro, quello era il soprannome della scorsa settimana!»
Una spinta, a mano aperta sulla schiena, l’erba sul viso e un leggero rossore sulle guance. Sapeva, questa volta sapeva che lei lo stava osservando: ed era l’unico motivo per cui, a differenza delle altre, quella caduta faceva così male…

Edoardo era cresciuto fragile, nel fisico come nello spirito: non aveva mai saputo cosa fossero l’autodeterminazione, la consapevolezza di sé, l’orgoglio. Aveva convissuto dai tempi dell’asilo con la presenza costante e assassina di una codarda timidezza, che solo di recente aveva cominciato a rivoltarglisi contro.

«Ti serve una mano, Edo…?»
La mattina, la professoressa aveva annunciato l’arrivo di una nuova compagna di classe. Si chiamava Monica, ed aveva traslocato da poco. L’aveva guardata come fosse trasparente, una sagoma indistinta di fronte alla lavagna nera già scribacchiata di appunti. E poi quella sagoma indistinta gli si era seduta accanto, temperando per lui la matita che si era spuntata.
Sorridendogli.
Senza quasi parlare, ma creando quell’atmosfera di tiepida vicinanza che precede il nascere delle più durature amicizie:
«Posso chiamarti Edo, giusto?»

Introverso, schivo, aveva sempre fatto volentieri a meno della compagnia della gente: della sua, però… Della sua non avrebbe voluto fare a meno.

Aveva balbettato un sì, tirandosi in piedi con qualche movimento impacciato. Aveva sorriso, imitando il sorriso di lei: non era ancora in grado di farsi contagiare dalla sua gaia allegria, o di ricambiare quello sguardo lucido di curiosità, ma in quel viso dall’espressione aperta e serena riconobbe tutto ciò che da sempre avrebbe voluto trovare in un viso umano rivolto verso di lui, rivolto verso quel sacco di niente che si era convinto di essere.

Si chinò, raccogliendo la pietra poco meno grigia dell’asfalto: banale, proprio come si sentiva anche lui. Identica a tante altre, soltanto più sfortunata e più sola, per il solo fatto di essersi trovata sul suo percorso ed ora fra le sue dita ossute. La strinse nel pugno, quasi inconsapevolmente, mettendo un piede avanti all’altro per raggiungere la meta.
E qual era, questa magica meta? L’obiettivo finale, il senso di quel suo andare avanti nonostante le prese in giro, sordo e cieco alle risate e alle cattiverie altrui?
Soltanto un’altra delusione, probabilmente.
Lanciò lontano il sassolino, osservandone intensamente la traiettoria contro l’alba: lanciandosi, imitando quella pietra tanto estranea e tanto simile a sé… Avrebbe raggiunto un posto migliore? Nel mondo, nella società. Lontano da quella goffaggine, da quell’incertezza cui l’avevano condannato le sue stesse scelte, il mutismo, il disinteresse e la paura verso i suoi simili? Verso i coetanei, come sua coetanea era lei?

Il sasso ce la mise tutta per seguire le leggi della fisica e la traiettoria impressagli. Ve lo posso giurare. Ubbidì docile alle leggi del moto, tracciando la prescritta parabola con millimetrica precisione. Ma per una volta, per una singola volta, la trama dell’universo sembrò accettare una deroga all’incontrovertibile. E quando Edo pronunciò quella frase… Quel “non serve a niente provare a cambiare”, quel sussurro, quella convinzione espressa a mezza voce che se solo si fosse tramutata nella convinzione opposta avrebbe reso meno vano il futuro di quella giovane vita… Beh, il sasso si fermò.
A mezz’aria.
Fece retromarcia, con la caparbietà di un proiettile appena fuoriuscito da una canna rigata, e con appena meno impeto scolpì la sua impronta sulla fronte del ragazzino: Ahi!
E ne sono consapevole, il sovrannaturale – o l’innaturale – non intervengono nell’esistenza di noi poveri esseri umani, a muoverci un rimprovero per una scelta di vita: ma se in un’occasione, nel tempo inesistente di un racconto inventato, un moto contrario alle regole che governano il cosmo è intervenuto nel formarsi di una volontà, non vorrete intervenire voi stessi, su quella medesima volontà, con lo stesso impeto, per imprimerle questo identico moto controcorrente?
Perché Edoardo ha ripreso in mano il sasso, quello stesso che aveva eletto a simbolo della sua adolescenza.
E non l’ha mai, mai più gettato via.

Nata a Conegliano Veneto, da quando ha imparato a tenere una penna in mano adora riempire ogni pagina bianca con l'inchiostro dei pensieri; si è laureata in Lettere Moderne all'Università di Udine, concludendo la carriera accademica laureandosi in Editoria e Giornalismo all'Università di Verona. Dedica il tempo libero alla scrittura e alla fotografia.

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