Fleabag, il femminismo che non ti aspetti

La serie scritta e intepretata da Phoebe Waller-Bridge che ha fatto incetta di premi agli Emmy Awards del 2019 è un’allegoria del femminismo 2.0

Nel mese di luglio Cogito et Volo pubblicherà i migliori contributi raccolti attraverso l’ultima Call for papers primaverile. Tra gli autori di questi ultimi verranno selezionati i futuri collaboratori del sito. I contributi già pubblicati sono reperibili qui. Per chi non avesse partecipato e volesse condividere le proprie idee e inviare un contributo singolo – articolo, racconto o poesia – è sempre possibile farlo: non smettiamo mai di metterci in gioco!

È l’inverno del 2017 quando per caso mi imbatto in una singolare sit-com britannica: sei puntate senza doppiaggio che si rivelano essere una piccola perla nell’immenso catalogo Netflix. In particolare, mi colpisce la bravura dell’attrice protagonista: sentita in lingua originale – devo ammettere – è proprio una bestia da palcoscenico. Cerco il suo nome e alla fine lo trovo: un’illustre sconosciuta. Tuttavia, scopro che è anche l’ideatrice e sceneggiatrice della serie. «Questa ragazza ha delle Great Expectations», penso. 

La serie era Crashing e l’attrice in questione era Phoebe Waller Bridge. 

Per questa sfilza di motivi quando nel 2019 tutti i profili social giusti hanno iniziato a spammare Fleabag urlando al miracolo, io pronta al binge-watch pensavo: «bene, è arrivato il momento». Ovviamente Fleabag soddisfaceva tutte le mie aspettative ma sentivo che andava anche oltre. Faticavo però a capire cosa fosse quel quid in più che la rendeva perfetta. Qual era l’elemento magico? Per tanto tempo ho pensato che fosse la rottura della quarta parete: Fleabag si gira verso di noi e ci dice la sua verità, ci fa morire dal ridere e allo stesso tempo indica l’elefante nella stanza. Mi ci è voluto un po’ a capire che non era solo questo.

La locandina della serie, la prima e la seconda stagione sono disponibili su Amazon Prime

Quando ho iniziato anche io a volere indottrinare le mie conoscenze con la genialità di questo show, mi veniva detto: «Ma quale? La serie femminista?». Fermi tutti. Fleabag è una serie femminista? Indubbiamente sì e si merita di essere definita tale. Allora perché non l’avevo catalogata così? 

In effetti sono presenti molte scene in cui si tratta esplicitamente dell’argomento, ma dopo un’attenta riflessione e un necessario re-watch mi sono resa conto che forse sono ancora di più quelle in cui se ne tratta implicitamente. Per dirla tutta, si potrebbe addirittura considerare l’intera sceneggiatura di Fleabag un’allegoria del femminismo 2.0. In che senso? Restate con me. 

Partiamo dalla protagonista: Fleabag è il ritratto della giovane donna moderna, la sua vita di trentenne londinese è tutt’altro che già instradata, pur essendo profondamente consapevole della società che la circonda, spesso ci si scontra, ma senza mai essere in preda all’ansia di adattarsi ai suoi dictat. Non è certamente una ragazza spensierata, quando la conosciamo all’inizio della prima stagione porta già sulle sue spalle due grandi dolori che le rimarranno a fianco. Nonostante ciò vuole sempre mostrarsi forte, come se questo atteggiamento in parte “curasse” lei e gli altri o forse semplicemente non sente il bisogno di mostrarsi debole. La sua rottura della quarta parete e la comunicazione diretta con gli spettatori è, se ci si pensa bene, un elemento fondamentale per questa nostra lettura in chiave femminista: quello che fa parlando direttamente col pubblico è creare un forte legame di empatia. Noi conosciamo la sua realtà dal suo punto di vista, come potremmo non crederle, come potremmo non stare dalla sua parte? 

E qui mi sembra utile introdurre il personaggio di Martin, il marito di Claire, la sorella maggiore di Fleabag. Martin è il patriarcato. Quando ci viene presentato sembra un uomo tranquillo, certamente non brillante, ma innocuo, ingenuo, forse pure un po’ sciocco. Lentamente scopriremo che è il male fatto persona, tanto che lo possiamo definire come il cattivo principale. È subdolo, è un alcolizzato, è pieno di difetti, mente, tiene in pugno Claire e dice un sacco di cose fuori luogo, ma nessuno osa mai rimetterlo al suo posto: un po’ per quieto vivere, un po’ perché, diciamocelo, lui sì che può permetterselo. 

In fondo, ricordiamoci qual è il motivo per cui Claire acconsente a stare con lui: perché lui la fa ridere. Quella è la cosa più importante, no? «E dai, fattela una risata, che tutto il resto è perdonato». 

Mentre scopriamo passo passo le insidie di Martin, ci lasciamo infastidire dal perbenismo della Godmother, la sua figura è quella che viene definita come “poliziotta del patriarcato“, che non perde occasione di ridicolizzare e colpevolizzare Fleabag a causa del suo atteggiamento libertino, quando al contempo nella vita privata si concede senza vergogna ogni sregolatezza. Proprio grazie a questo atteggiamento subdolo e ipocrita la Godmother riesce ad essere una donna di successo che vive all’apice della catena alimentare sociale. 

Allo stesso tempo tifiamo tutti per la ribellione di Claire, la cui evoluzione e presa di coscienza è probabilmente il percorso più affascinante della serie. Inizialmente Claire è tremendamente inquadrata, una perfetta donna borghese ligia alle regole, disposta a tutto pur di mantenere uno stato di ordine e calma apparente all’interno della propria vita, anche a chiudere un occhio su qualche scomoda verità. Lentamente si renderà conto che questo gioco non vale la candela e che se si vuole la vera felicità nella vita bisogna abbandonare l’apparenza e cercare la sostanza. Tutto questo anche grazie all’aiuto della sua sorellina sopra le righe Fleabag, che Claire ammira più di quanto voglia ammettere. 

È la famosa differenza tra ragionamento induttivo e deduttivo che facevamo tanta fatica a capire al liceo. Pheobe Waller Bridge utilizza il metodo induttivo per farci assimilare dei concetti che sono universali, magari senza che ce ne accorgiamo nemmeno. Semplicemente geniale. 

Tante altre sono le scene in cui si parla esplicitamente di femminismo, pensiamo al «We are bad feminists» della prima puntata, messo lì ad indicare che definirsi femminista non consiste semplicemente nella ferrea adesione a una lista di ideali da sventolare in piazza, ma è prima di tutto un incessante lavoro di autocritica. O ancora al bellissimo monologo di Belinda, la donna in carriera, che spiega come la vita femminile sia già abbastanza infernale di per sé senza che vi si aggiungano tutti i costrutti sociali e come nonostante ciò non si debba smettere di sperare nell’umanità perché «People are all we’ve got». Molte altre sono le letture che si possono dare di questa acclamata produzione per il piccolo schermo, ma una cosa è certa: con Fleabag la Waller Bridge ha raggiunto un livello che sarà arduo superare per chiunque verrà dopo.

Il trailer della prima stagione

Articolo a cura di Giada Giamborino.

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Studentessa di Giurisprudenza che mangia Pop Culture a colazione e ve la racconta nel tempo libero. Trovo sempre il pelo nell'uovo ma non per questo disprezzo la frittata. Metà ironica, metà malinconica. Da grande voglio fare la Mara Maionchi. (@jadesjumbo)

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