La morte di mio nonno

“Sono tutte illusioni, siamo d’accordo, ma le illusioni non sono tutte uguali: da quella che scegli si capisce chi sei.” Mario Andrea Rigoni

L’anno della quinta morì anche mio nonno

Sì, Carmen, lo scriverò, nonostante il tuo sguardo di sufficienza. Nonostante tu mi dica che lo faccio solo per vantarmi, che a tutti prima o poi muore il nonno e che quelli che ci ricamano sopra la storiella sono solo dei poveretti che non hanno altro a cui attaccarsi. Fanculo Carmen, forse è vero, forse è vero: mi sento così priva di valore che per avere la compassione e l’attenzione degli altri non mi resta che piagnucolare sul mio povero nonno morto

Ero abbastanza legata a mio nonno, dico abbastanza perché mi sembra strano dire molto. Che vorrebbe dire molto legata? Ero legata a lui come una normale nipote ai suoi nonni. Gli volevo bene, gli parlavo, ci passavo del tempo insieme. Lui, in parte, mi ha cresciuto, per cui ho molti ricordi insieme a lui. Dire che gli ero molto legata mi sembra come se stessi dicendo che avevo un rapporto speciale con lui, che gli altri non possono capire, che non avranno mai. Invece non è così, era un rapporto come anche tu potresti averlo con tuo nonno. 

Immagine tratta da Pexels

Aveva un tumore che ormai si faceva strada da quattro anni. Tutti sapevamo che proprio questo ce lo avrebbe portato via.  Durante quell’anno iniziò a peggiorare drasticamente. 

La prima cosa che si notò fu il suo dimagrimento. Seppure fosse consistente, non mi fece mai troppa impressione. Rimaneva il mio nonno, più magro e debole, ma sempre mio nonno.  Poi, però, ci fu il momento della morfina. Lì iniziai a vedere come lo devastava quella malattia. Non era più lucido, viveva in un mondo tutto suo e non parlava quasi più e, se parlava, diceva cose sconclusionate

Per me già in quel momento mio nonno non esisteva più. C’era solo il suo corpo, ma la sua mente, il suo essere, erano andati altrove. 

A causa della diminuzione della logica, mio nonno divenne difficile da gestire e mia madre si trasferì a casa dei miei nonni.  Anche io andavo là, finita la scuola, così potevo aiutare mia nonna e mia mamma a tenere la situazione sotto controllo. Lo facevo senza peso, come se non ci fosse nemmeno l’idea di un’altra opzione e, sinceramente, credo che un’altra opzione sarebbe stata egoista da valutare. 

Come tutti, soffrivo a vederlo ridotto in quel modo, senza la capacità di capire cosa gli succedeva. Non ho provato rabbia, come invece la provò Mattia per sua nonna, ho sempre pensato che fosse normale morire di malattia, che non ci sia un’ingiustizia nell’avere un tumore, a una certa età. Semmai, era un’ingiustizia quello che ci accadeva intorno, l’ISIS e la sua violenza. Temevo immensamente la possibilità che scoppiasse una guerra, che avremmo dovuto abbandonare mio nonno malato, come all’epoca del fascismo.  Avevo paura al pensiero di come sarebbe stato indifeso e torturato. Quello mi faceva molto più paura di una morte per malattia. 

Ci fu una volta che non riuscii proprio a trattenere le lacrime. Un giorno ebbe un improvviso attimo di lucidità. Io, mia nonna e mio cugino eravamo intorno al suo letto. Ci guardò con gli occhi lucidi, con la voce flebile e rotta dal pianto, ci disse solo “vi voglio bene”. Fu qualcosa che davvero mi stupì, vedere mio nonno piangere, avere paura e star male.

Il giorno in cui morì, sapevo che sarebbe stato probabile che accadesse, per questo avrei tanto voluto essere lì, per dargli sicurezza, quella che io avevo, perché credevo in Dio, mentre lui no.  Il giorno successivo, però, mi aspettava un’interrogazione irrimandabile: se l’avessi saltata avrebbe incasinato altri compagni di classe. Quindi dissi a mia nonna che non potevo andare, nella speranza che non morisse proprio quel giorno. Preparai l’interrogazione e mio nonno morì. Che rabbia mi monta dentro adesso, quanto sono stata cretina! Davvero era più importante la mia interrogazione e la benevolenza dei miei compagni? Irrimandabile ho scritto, una stupida interrogazione di religione. Vergogna!

Immagine tratta da Unsplash

Andammo a casa di mia nonna, piansi quel giusto che si piange una morte, senza nessuna pretesa che quelle lacrime lo riportassero in vita, ma solo per me stessa, per il mio dolore.  Mangiammo tutti insieme a casa dei miei nonni. In tavola c’era una bottiglia di vino che doveva ancora essere aperta. Nel mezzo della silenziosa cena, partì il tappo e ci fu una risata generale. Penso che tutti abbiano creduto fosse una sorta di segno, giunto dal cielo da parte di mio nonno. Il giorno dopo andai comunque a scuola, tanto stare a casa non sarebbe servito a nulla e, poi, c’era quella stupida interrogazione. La portai a termine degnamente, senza grossi problemi. 

Nei giorni successivi, mi aspettava altro duro lavoro da fare a scuola, perché la fine dell’anno si stava avvicinando, per cui cercai di non pensare troppo a mio nonno, di non perdermi in quel pensiero. Mi ripetevo:

“Se fingi che non sia accaduto è come se non fosse morto, poi, quando avrai finito tutto, potrai piangere la sua morte.” 

Feci esattamente così. 

Non mi presi nemmeno il tempo di soffrire per una cosa per cui soffrono tutti, perché mi avrebbe distratto dal mio obiettivo, mi avrebbe fatto deconcentrare dal terminare degnamente quel percorso così faticoso, magari sarei stata costretta a ripetere l’anno e questo mi faceva troppo paura.  Il timore di dover rimanere ancora in quella scuola era più forte del dolore. 

Ero totalmente persa e immersa in quel mondo che, per quanto volessi bene a mio nonno, non ero riuscita a dare alla sua morte la priorità, per almeno un po’ di tempo. Mi sembrava che da quella scuola dipendesse tutto il mio futuro e la mia vita con o senza Carmen, ma non è così. Per quanto ogni cosa influenzi la nostra presenza sulla Terra, non è mai una singola forza a determinare il nostro futuro, ma è sempre la somma di ciò che accade e di ciò che permettiamo che accada. Per cui mi sento immensamente stupida ad aver creduto che un congruo periodo di sofferenza per la morte di mio nonno avrebbe impedito la mia autorealizzazione, ma, come ho detto, ero talmente immersa in quel mondo da non vedere chiaramente la realtà, da non rendermi conto di quanto il mio pensiero fosse errato. Temevo e mi sembrava reale che, se avessi distolto lo sguardo, anche per un solo secondo, avrei perso per sempre Carmen, che ormai era già così lontana.

Immagine di copertina tratta da Pixabay

Prendere la penna in mano mi rende terribilmente felice. Fin da piccola mi sono innamorata del mestiere di scrivere, poteva essere il classico romanzo rosa, invece porto le cicatrici sul corpo di questo amore. Combatto ogni giorno per conquistare un pezzo del mio sogno, vivere di parole, perché anche se mi fa soffrire ne sono terribilmente innamorata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.