Impara a mollare

“A volte lasciare andare le cose è un atto di gran lunga più potente della difesa o dell’attaccamento.” Eckhart Tolle

Proseguono le puntate del racconto di Giada Penello: ecco il link all’episodio precedente.

Passai tutto il primo anno di superiori così: a rincorrere un misero sei per non rasentare il ridicolo; a piangere sui libri sperando di imparare qualcosa, mentre guardavo Carmen che, ormai, non guardava più me. A volte in mezzo a quei libri trovavo qualcosa di lei, allora mi ci attaccavo con tutte le speranze e l’amore che avevo. Accarezzavo le lettere con le dita e rivedevo il suo volto, di quando ancora mi amava. 

Frammenti di vita, taglienti perché se non ci fossero stati a ferirmi continuamente la pelle, forse, mi sarei scordata che esistevano e il mio dolore si sarebbe placato, ma quel dolore era anche qualcosa che mi costringeva a restare viva.

In camera mia avevo appeso tutte le foto di me e Carmen, dei bei momenti passati insieme. All’epoca, però, più le guardavo, più mi sembrava che fossero delle bugie, che mi deridessero. 

Staccai quelle foto dagli armadi, con rabbia e con cura, perché volevo trovare il modo di esprimere la mia disperazione, ma non volevo allontanarmi troppo da loro, dalla speranza che, un giorno, sarebbero tornate realtà. 

Le riposi in una scatola affinché non avessero più il potere di sbeffeggiarmi e per punire la mia stupidità e inadeguatezza.

Non le meritavo.

Mia madre, quando se ne accorse, mi fece riattaccare tutto. Probabilmente era esattamente quello che volevo. 

Ora che non avevo più Carmen, non avevo più la scrittura, mi rimanevano solo i miei genitori. 

Ne avevo un disperato bisogno, volevo che, come quando da piccola mi salvavano dai mostri di notte, ora mi salvassero da quel turbinio di dolore

Quello strappare le foto era stato il mio grido disperato e quel “riattaccale” di mia madre il suo: “ti sento, ma non posso fare di più.”

Ristaccai almeno altre quattro volte quelle foto, sperando che, magicamente, succedesse qualcosa di nuovo, che la vita, vedendo quel dolore, decidesse di darmi tregua, ma ottenni sempre la stessa reazione. 

Mia madre non poteva fare di più, mia madre non poteva cambiare la mia mente e mia madre non poteva capire quel dolore, perché non conosceva Carmen come la conoscevo io. 

Immagine tratta da Pexels

Avrei potuto evitarmi in parte quella sofferenza, ma lo capii solo dopo quei cinque anni o forse ancora più tardi, all’università. Avrei potuto cambiare sezione, scuola o indirizzo, avrei potuto vedere come sarebbe stato altrove. Allontanarmi un po’ da Carmen e da quell’ambiente soffocante, e riscoprirmi valida e capace da un’altra parte. 

Forse, in un nuovo ambiente, avrei trovato un po’ di comprensione e sicurezza, sarei rinata e sarebbe anche rifiorito l’amore tra me e Carmen. 

Mi sembrava, però, di mollare

Ci insegnano fin da piccoli, anche con i libri che tanto amo, che non bisogna mollare, che bisogna essere caparbi e forti, sopportare il dolore e riuscire nell’obiettivo, anche se pieni di ferite, e io volevo essere così, eroica, stoica. 

Mi credevo un eroe romantico, schiacciato dalle avversità, che si compiace del suo dolore, perché più è forte e più, allora, è epica la sua impresa. 

Cazzate. 

Era giusto provarci, sopportare per qualche anno, quel tanto che bastava per vedere se le cose sarebbero cambiate, ma ad un certo punto avrei dovuto capire che quello non era l’ambiente per me. Professori, compagni, materie: ho deciso di non cambiare una virgola di tutto questo, rendendomi conto solo alla fine del percorso che non ne era valsa la pena. Quei cinque anni di dolore non mi avevano portata alla meta che dovevo raggiungere, non mi avevano arricchita di conoscenza.

Dopo aver trascorso cinque anni chiusa in quel mondo, confrontandomi con gli altri capii che non avevo imparato nulla in più, soprattutto su ciò che più amavo.
Mi accorgevo che avevo sofferto tanto e, alla fine, rimanevo comunque più indietro di chi aveva patito molto meno.
Forse tutto questo poteva essere evitato, se avessi avuto il coraggio di introdurre anche un piccolo cambiamento, se non mi fossi fossilizzata sull’idea che cambiare significava mollare, essere una perdente, essere debole.
Cerco, come tutti, di convincermi che quegli anni, seppure non mi abbiano fatto raggiungere gli obiettivi che mi ero posta, mi abbiano insegnato a sopportare di più il dolore, a non crearmi aspettative sulle persone e sulle cose, a non credermi mai abbastanza capace, così da considerare anche il più stupido in grado di insegnarmi qualcosa.

La realtà è che, probabilmente, avrei imparato tutto questo anche senza soffrire così tanto. Per cui quel persistere ad affrontare quel periodo non è stato altro che una tortura che mi sono autoinflitta. 

Dovremmo insegnare ai nostri figli che, a volte, mollare è la scelta giusta e che non devono sentirsi meno validi per questo, né avere paura di farla, anche se gli altri giudicheranno la loro decisione come una debolezza.

Che la debolezza non è solo un difetto, ma anche istinto di sopravvivenza. 

Per cui la verità è che, dopo un periodo di prova, avrei dovuto mollare, che sono stata forte stupidamente, per qualcosa che non ne valeva la pena. 

Se, invece, pensi che io abbia confuso il continuare a lottare con il persistere in un errore, dico che ti sbagli. 

La vita non ha una netta divisione tra giusto e sbagliato, la vita a volte ha solo scelte, che poi hanno delle conseguenze su di noi, che non si possono prevedere, prima di aver vissuto quella scelta, e che possono essere o negative, o positive, o indefinibili. Dopo aver vissuto totalmente quella decisione, so che avrei dovuto scegliere diversamente: solo ora so che sono rimasta lì dov’ero perché credevo che la mia fosse la storia di un eroe, perché credevo di dover sopportare le ferite di una guerra che combattevo per il nulla.

Per cui, lettore, non fare come me, ma abbi cura della tua felicità, impara non solo a lottare, ma anche a mollare quando è il momento. 

Conclusi il mio primo anno con una sfilza di sei, ma salva dalle insufficienze. 
Mi aveva fatta rimanere a galla l’amore che provavo per tutti i poeti antichi: una volta tradotti correttamente nella mia lingua, riuscivo a connettermi con i testi, a empatizzare con quegli uomini, che, per alcuni aspetti, erano così simili a me. 
Questa salvezza, però, non mi bastava per essere felice. Infatti, seppure non fossi né stata bocciata, né rimandata, sentivo di aver perso Carmen e capivo improvvisamente di non essere mai stata alla sua altezza.

Immagine di copertina tratta da Unsplash

Prendere la penna in mano mi rende terribilmente felice. Fin da piccola mi sono innamorata del mestiere di scrivere, poteva essere il classico romanzo rosa, invece porto le cicatrici sul corpo di questo amore. Combatto ogni giorno per conquistare un pezzo del mio sogno, vivere di parole, perché anche se mi fa soffrire ne sono terribilmente innamorata.

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