La Regina degli Scacchi

La Regina degli Scacchi

Il peso degli sguardi nella vita di una donna

Mio cugino ha compiuto 16 anni lo scorso 20 luglio: è un ragazzo abbastanza intelligente, non è una cima, certo, ma si intravede quella scintilla di chi ha ancora tutto da scoprire ed è voglioso di farlo… O almeno, questa è la speranza dei miei zii.

Fabio è uno di quei giovani etichettati con un bel “è intelligente ma non si applica (ancora)”. Io, però, credo che abbia ancora tutto il tempo per dimostrare quanto vale, anche se – sarà lui, sarà l’età – è impossibile non notare una certa differenza rispetto alle ragazze della sua età, che, in generale, sembrano già molto più mature dei ragazzi. Magari succede perché le ragazze maturano prima, o perché i ragazzi maturano più lentamente; conosco persone che a 40 anni devono ancora iniziare a farlo, e i genitori di queste saranno ben più in pensiero rispetto ai miei zii.

Pensavo a tutto questo mentre ero alla sua festa di compleanno, mio malgrado e in un certo senso a mia insaputa. Immagino che chiunque adori ritrovarsi in mezzo ad una compagnia di sedicenni e sentirsi tremendamente più vecchio per colpa loro, se la festa si svolge a casa mia e non vengo avvertito è difficile trovare una scusa per evitare l’assalto dei fanciulli in pubertà.
Siccome Fabio compie gli anni il 20 luglio, avevo pensato di regalargli una scacchiera, un po’ perché speravo che ci sapesse giocare, un po’ perché è la giornata internazionale degli scacchi, a quanto pare da quasi cent’anni anche se io l’ho scoperto solo pochi giorni fa, appena in tempo per avere un’idea originale per il suo regalo.

La festa era diventata interessante verso la fine, dopo i regali, la torta e tutto ciò che ci vuole per chiamarla “festa” a tutti gli effetti. Mi si avvicina una ragazza e mi dice, in modo deciso: «Bello il tuo regalo, sai giocare?».
Era una bella ragazza, con la pelle molto chiara, i capelli sciolti e neri che le cadevano sulle spalle scoperte da un vestito tutto nero, molto elegante e molto corto. Non ero l’unico che se ne era accorto, che fosse corto, intendo, ma mi affascinavano anche i  suoi due occhi, uno sguardo nero, profondo, capace di sorriderti e rapirti.
Prima ancora di riuscire a rispondere mi dice: «Scommetto che ti batto», in modo irresistibilmente provocante. Le rispondo solo: «Va bene, andata!» e ci mettiamo a preparare la scacchiera in un punto un po’ più tranquillo della sala, lontani dalla musica e dall’attenzione del resto dei partecipanti.

La ragazza senza nome sceglie i neri, sistema i pezzi, va a prendersi da bere e torna, guardandomi compiaciuta, con l’aria di chi ha la situazione in mano.
Iniziamo la partita e dopo qualche mossa e le solite frasi di circostanza le faccio i complimenti per il vestito, obiettivamente era molto bella, anche se il mio intento era arrivare a farle notare che poco prima, quando è andata a prendersi da bere, alcuni ragazzi l’avevano squadrata come fosse un manichino di plastica viva. Qualcuno aveva fatto qualche apprezzamento plateale, qualche altro si era limitato a guardarla dal collo alle caviglie e ritorno, tuttavia a lei non sembrava dare fastidio, anzi, quindi avevo lasciato perdere fermandomi al complimento sul vestito.

Non giocava male, anzi, si concentrava più del previsto per una partita a scacchi improvvisata ad una festa a pochi metri da altra gente intenta a ridere e scherzare;
muoveva i pezzi con decisione, altre volte con cauta esitazione, volando con la mano sopra la scacchiera prima di prendere il pezzo scelto e fare la sua mossa. Aveva un piano in mente, non erano mosse a casaccio.
«Sai, sei bravina».
«Grazie, mi piacciono gli scacchi, anche se non ho mai capito perché il re e la regina siano così diversi e soprattutto perché se a regina è così forte è meno importante del re che è molto più debole… Magari è perché anche nel mondo è un po’ così», disse, con una mezza risata e una linguaccia.
«In effetti», le dico per andarle dietro, «il re fa un passo alla volta, come l’uomo che sa fare una sola cosa alla volta».

Foto a cura dell’autore

A quella mezza battuta autoironica si mise a ridere dolcemente, di una risata tenera come una rosa bianca che sboccia guardando la luna, era uno spettacolo vedere quanto fosse naturale in tutto ciò che faceva.

«Mi sa che l’ha notato anche qualche altro tuo amico, che sei brava, ogni tanto vedo che qualcuno guarda interessato mentre passa», le dissi.
Dopo un attimo di silenzio, mantenendo lo sguardo fisso e concentrato sulla scacchiera, mi rispose con un: «Guardano me, non quello che faccio».
Mi spiazzò. Più di qualsiasi mossa potesse fare. Lo disse con un velo di rassegnazione, come se fosse una cosa ovvia e abbastanza triste, alla quale era quasi abituata.
«Non è una cosa troppo carina… Non ti dà fastidio?»
Alzò lo sguardo, fissandomi: «L’hai fatto anche tu, prima, no? Non penso che tu ti senta troppo in colpa».
In effetti, ammisi a me stesso, l’avevo guardata anch’io, avevo notato il vestito corto, la pelle nuda, non potevo negare di averla guardata, cercai una vaga giustificazione in un «Sì, è vero, d’altra parte sei una bella ragazza, con un bel vestito…»
«E un bel culo», proseguì lei, «a me non da fastidio essere guardata qui, a questa festa, dove sono vestita bene e dove bene o male conosco tutti, mi piace vestirmi così, non è un problema. Il fatto è che domani io non sarò qui, non sarò vestita così, potrei essere ovunque vestita in qualsiasi modo ma qualcuno che mi fissa, che mi chiama o che mi fischia c’è sempre, quello mi da più fastidio. È come se per voi il vestito fosse una scusa, io mi sento osservata anche per strada, anche se è inverno e ho la giacca più grossa del mondo».
Non mi diede modo di rispondere qualcosa, fece solo una pausa per poi proseguire con un tono ancora più serio e critico, un piccolo sfogo di cose già viste e vissute, pensate e pesanti dentro di lei: «Tu lo sai che quando cammino per strada vedo gli automobilisti fermi al semaforo che mi guardano? Magari di sfuggita, magari senza pensarci, ma le donne al volante non lo fanno, lo fanno solo gli uomini, di tutte le età».
“Probabilmente l’ho fatto anch’io”, pensai, non associavo ad un qualcosa di negativo il guardare una ragazza carina per strada, tuttavia non so bene come mai in quel momento la stessa azione mi sembrò molto meno giustificabile, per com’era raccontata da lei.

Non riuscivo a pensare a qualcosa di utile da dire, da qualche turno proseguivamo la partita con meno interesse. Cercavo di non sentirmi in colpa per quello che stava dicendo e che inevitabilmente mi coinvolgeva: dopo un attimo di silenzio, le feci un’altra domanda.
«Ti pesano tanto gli sguardi della gente?»
Forse per la prima volta non aveva una risposta pronta da darmi, mi guardò con uno sguardo perso per un attimo e alla fine disse: «Credo di no… No, non mi pesano gli sguardi, mi pesa il dovermi abituare agli sguardi, l’idea di pensare a come vestirmi in base a dove vado, a me piace questo vestito ma non posso usarlo ovunque e mi pesa il doverci pensare. Tu ti vesti come ti pare, non ti preoccupi,  a me pesa sentirmi impaurita se devo fare un pezzo di strada da sola di sera, sentirmi a disagio nell’essere chiamata se vado in bicicletta ed essere sempre pronta ad accettare fischi, vaghi apprezzamenti, risate. Non puoi farci nulla, non puoi rispondere per paura che dalle parole si passi ai fatti. Mi pesa tutto questo e sapere di dovermi preoccupare e adattare, perchè il mondo intorno a me è anche questo, paura di stare da sola, paura della gente, paura di essere una ragazza in un mondo dove gli uomini non capiscono questa paura».

Lei parlava e io la stavo a sentire, vedevo una ragazza che affastellava parole che giravano come fiori di carta creandole un velo attorno, un velo fatto di paure dove si nascondeva la sua sensibilità.
Per lei il mondo non è limpido, rischia di essere spigoloso ovunque cammina, fatto di strade con occhi appuntiti, di lingue taglienti che le sfrecciano accanto, di paura che le toglie la voglia di vivere e sbocciare, di questo malessere strisciante che si annida tra la gente ed è alimentato da chi crede che le donne non lo vedano o semplicemente dal pensiero che uno sguardo sia leggero.

D’un tratto sentii: «Scacco matto», detto con il tono di chi aveva vinto due partite in un colpo solo.
«Mi hai fregato, ragazza».
Mi strizzò l’occhio compiaciuta.
«Sai perché si dice scacco matto?» le chiesi prima che decidesse di alzarsi per andar via.
«Mmh.. Direi di no », rispose molto candidamente.
«Deriva dall’espressione persiana “Shāh Māt”, che significherebbe “il re è morto”. È stato malamente tradotto in “scacco matto” per assonanza, che non ha troppo senso se ci pensi».
Mi guardò per un istante con aria curiosa e con un accenno di sorriso mi disse: «Grazie, questa non la sapevo. E grazie anche per la partita. Io comunque mi chiamo Malakeh: in persiano, significa regina».


Lei sarà pur una ragazza di 16 anni ma diventerà una donna, una bella donna, che riuscirà a realizzarsi e diventare la regina che merita, in grado di andare ovunque e fare tutto ciò che vorrà. Tuttavia, dovrà convivere con la presenza di uomini che le faranno vedere il mondo sempre come un luogo insidioso, velato da una coltre nebbia pronta ad offuscarne la bellezza, a non lasciarla sbocciare.

Fino a che le regine continueranno a valere meno dei re vivremo in una società maschilista che senza motivo è pronta a sacrificare la sua parte migliore.

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Sono uno studente di Beni Culturali di Verona, mi piace viaggiare sia nella vita reale che attraverso i libri, sempre con la voglia di imparare qualcosa di nuovo. Cerco di esprimere come posso quello che penso e che sento attraverso la scrittura, a volte attraverso l'ironia.

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