L’empatia è una questione di coscienza o di istinto?

L’empatia è innata nell’essere umano, fin dall’infanzia. Ma a livello biologico dove si genera l’empatia? E quante tipologie di empatia esistono?

A sera, le acque dei laghi riflettono microscopiche lacrime di luce; queste raggiungono velocemente le rive, cercando di nascondersi tra le foglie sottili di un manto d’erba cresciuta troppo in fretta. Ma invano: il loro bagliore le tradisce. Uno scatto felino provoca ad Andrea nient’altro che una scivolata. Rovina al suolo, ma il barattolo che ha in mano salta in aria e compie il lavoro sporco al posto suo: per una serie di fortunati eventi, cade a testa in giù, anche lui al suolo; ma la trasparenza delle superfici rivela l’elettricità intermittente di ben due lucciole, intrappolate al suo interno. L’incanto, in quegli occhioni da cartone animato che quel bimbo di sette anni si ritrova, è presto rimpiazzato da un senso di dispiacere, di pena, per quei piccoli insetti che combattono contro pareti invisibili per recuperare la loro libertà.

Un altro minuto di indecisione, prima del verdetto: si tratta di una conquista importante, è vero, e sarebbe un regalo unico per la mamma; ma dovrà pensare a qualcosa di diverso, le sue nuove amiche stanno soffrendo lì dentro, non è uno spettacolo così bello, infondo.

È importante quello che si fa, ma è più importante ciò che si è

Andrea lo sa, la mamma lo ripete da quando quella prima volta, in aereo, il piccolo non la smetteva di piangere: è sempre stato un pargolo calmo, ma alle altezze riservate ai raggi del sole, chi non strillerebbe, in aria, se già della terraferma si conosce così poco? Ma gli adulti non sempre lo capiscono, reagiscono nei modi più vari: chi si finge sordo e indifferente, chi spinge le pupille verso orbite che non gli appartengono, chi sorride paziente.

E poi c’è chi tende una manina: diametro medio cinque centimetri e una polpetta per pollice, temporaneamente assente dall’incarico di “dito da ciucciare”.  Sotto un perfetto taglio di capelli a scodella, da far invidia a Kevin McCallister (indiscusso protagonista in Mamma ho perso l’aereo) per la purezza di occhi e d’anima, Carletto regalava ad Andrea il suo pasticcino al cioccolato. Perché si sa, il cioccolato è risolutore.

Photo by Kelly Sikkema on Unsplash

Cioccolato ed empatia sono due amici d’infanzia, che forse sarebbe il caso di non abbandonare neanche quando le prime rughe fanno capolino, o quando ci si sente arrugginiti dalla quotidianità. Entrambi hanno il potere di consolare. È bello sapere di poter trovare in un barattolo di Nutella un porto sicuro per le nostre lacrime. Ma ci emoziona ben più intensamente una gioia, o un dolore, condivisa senza troppe spiegazioni.

Che cos’è l’empatia

Empatia è questo: è l’abilità di comprendere il mondo interiore di qualcuno, un mondo fatto di pensieri e sensazioni. Se ne conoscono due tipi, l’empatia emozionale e quella cognitiva: la prima, indica un processo di isomorfismo emozionale con qualcun’altro; chi la esercita decodifica ed internalizza lo stato d’animo della persona con cui interagisce attraverso le espressioni facciali, i gesti o il tono della voce.

L’empatia cognitiva si riferisce invece alla capacità di capire le necessità dell’altro, senza necessariamente trovarsi in quello stesso stato affettivo. Per intenderci, Carletto: col più angelico dei sorrisi lui porgeva ad Andrea la leccornia, pronunciando un “Tieni”, che deve aver considerato essere la chiave per mettere pausa al concerto. Di certo il furbetto non piangeva come il neonato. Ma, probabilmente, aveva compreso che qualcosa non andava.  

Photo by Marco Bianchetti on Unsplash

Dell’empatia, così come della grande maggioranza delle emozioni che possiamo provare, la neurobiologia ne sa ancora un po’ poco, purtroppo. Alcuni studi evidenziano un coinvolgimento dei geni relativi all’ossitocina e alla dopamina, oltre che ad un gene (ZNF804A) associato alla schizofrenia, ma non molto di più, nell’ambito della genetica. Quello che si sa è che, biologicamente, sono tre i sistemi neurali coinvolti:

  • i neuroni specchio: questi fanno sì che, quando vediamo compiere un’azione, nel nostro cervello si attivino le stesse aree di quando siamo noi stessi a eseguirla. È per “colpa” loro che sbadigliamo, ogni volta che vediamo qualcuno sbadigliare;
  • un sistema centrato sull’insula e sulla corteccia cingolata anteriore, che apparentemente lavorano come una sorta di sistema di allarme: qui vengono elaborati, a livello inconscio, i pericoli e i problemi cui un individuo è soggetto nel normale decorrere delle proprie esperienze;
  • diverse aree della corteccia prefrontale e quella parietale: la prefrontale ventromediale (VMPFC) si attiverebbe quando l’individuo deve operare in mancanza di molte informazioni esterne, quindi deve prendere decisioni basandosi sulle sensazioni, più che sulle conseguenze logiche.

Intuitivamente, l’empatia non è una questione di coscienza: è piuttosto un istinto. Un istinto che fa bene sia al mittente che al destinatario. Anzi, azzardo dicendo che questo dono, che ognuno di noi possiede, ha il potere di cambiare le relazioni su scala comunitaria. È il cosiddetto effetto palla di neve: esercitare empatia al 100% delle proprie abilità porta alla diffusione di quel bene, da parte di chi lo ha ricevuto. Come i pezzi di ghiaccio che si staccano da una palla di neve, dopo l’urto. Ed è un bene che ritorna, che ti restituisce un senso di pienezza, un senso di ebbrezza che crea dipendenza: riempi il tuo calice con 200 cc di empatia, ogni giorno.

Articolo originale di Sabrina Putignano

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