Microchip introvabili

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Il settore dell’elettronica sta andando incontro ad una crisi potenzialmente molto grave dovuta alla carenza di circuiti integrati. E – almeno in Italia – quasi non se ne parla.

Che cos’è un circuito integrato o microchip? È un piccolo gioiello tecnologico, realizzato trattando con procedimenti fotolitografici e chimici molto complessi il silicio in forma cristallina. Il risultato è un oggetto di forma rettangolare, solitamente non più grande di 25-30mm per lato e spesso meno di un millimetro, che permette a quasi a tutte le nostre apparecchiature moderne di funzionare.

Dai cellulari ai computer, passando attraverso lavatrici e forni programmabili, ogni cosa funziona grazie a questa tecnologia: anche un semplice rasoio elettrico a batterie la impiega.

Foto a cura di Brian Kostiuk su Unsplash.

Un rallentamento previsto

Come implicitamente previsto dalla prima legge di Moore, formulata nel lontano 1965, il mercato continua a richiedere una riduzione nelle dimensioni dei microchip. Di conseguenza un costante ammodernamento delle linee produttive è necessario.

Man mano che ci si avvicina ai limiti fisici (ovvero all’impossibilità di raggiungere dimensioni inferiori a quelle di un atomo), la resa tende a calare e i tempi di ottimizzazione ad aumentare.

Il colosso dei microprocessori Intel ne sa qualcosa. Non riuscendo a coprire la domanda con le sue linee di ultima generazione, l’azienda è costretta ad usare tecnologie di generazione precedente per sopperire alla domanda crescente. A puro titolo di comparazione, mentre nel 2000 il nuovissimo processore Pentium 4 utilizzava  una tecnologia produttiva a 180 nanometri, i nuovi microchip del 2021 utilizzano tecnologie a 5nm (una riduzione delle dimensioni di 36 volte in soli vent’anni). Per farsi un’idea dell’ordine di grandezza, un capello umano mediamente ha un diametro di 70.000 nm.

Legge di Moore: quantità di transistor presenti all’intero di un circuito integrato vs anno d’introduzione. Immagine a cura di Wgsimon – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Le motivazioni della crisi

Da molti anni, la maggior parte della produzione di questi dispositivi si è concentrata in Asia (Taiwan e Sud Corea), seguita dagli USA. In Europa troviamo solo poche fabbriche degne di nota. Basta sfogliare una semplice pagina di Wikipedia per avere una idea della disparità di capacità produttiva tra le varie aree del mondo.

La situazione non si è affatto semplificata a seguito della guerra commerciale tra USA e Cina degli ultimi anni.

Da diversi mesi, Taiwan è alle prese con una siccità che non si vedeva da 56 anni. Le industrie che producono i microchip necessitano di molta acqua (in buona parte riutilizzata) per i lavaggi durante le varie fasi dei processi chimici. Il fatto di non averne nemmeno per i fabbisogni primari della popolazione, fa sì che la produzione sia a rischio. Sono necessari approvvigionamenti continui mediante autobotti alle fabbriche, con conseguenti cali di produzione.

La recente pandemia

Ovviamente, tutto il settore ha subito un ulteriore colpo a causa del diffondersi di Sars-CoV-2. La pandemia ha esacerbato tutte le problematiche sopra citate, aggiungendone delle altre. In primo luogo, ad inizio 2020 la maggior parte delle aziende ha rallentato notevolmente la propria produzione, di conseguenza gli ordinativi ai produttori di microchip sono diminuiti. Tuttavia, i settori dell’informatica e in generale di tutte quelle tecnologie che ci hanno permesso di trascorrere con più agio i periodi di lockdown hanno visto incrementi a due cifre delle domande di mercato.

Il settore dell’automotive è uno di quelli che più è stato penalizzato. Parliamo di un settore che vale circa 56 MILIARDI di dollari soltanto in microchip, in quanto al giorno d’oggi, l’elettronica è ovunque: anche nelle auto. Dalle centraline di controllo del motore nei modelli più economici, si passa a veri e propri computer di bordo nei modelli più moderni e costosi. In media ci sono oltre 50 dispositivi elettronici diversi, tutti interconnessi tra loro, che gestiscono le varie funzioni di una moderna automobile.

Dispositivi elettronici di un’automobile. Immagine tratta da SnapEDA.com

Un altro settore  abbastanza peculiare è quello delle schede video, che al giorno d’oggi sono veri e propri sistemi di calcolo molto efficienti. Le schede video, oltre a permetterci di fruire di contenuti multimediali, usare programmi di progettazione meccanica, architettonica, elettronica, realizzare contenuti multimediali complessi, giocare con un fotorealismo che tende ad avvicinarsi sempre più al cinema, sono anche molto apprezzate da chi fa il cosiddetto mining delle criptovalute.

Questo processo, alla base del funzionamento stesso di molte criptomonete (in primis il Bitcoin, la più nota e quella con la più ampia fetta di mercato) richiede capacità di calcolo enormi, compito per cui le schede video di ultima generazione sono ottimizzate.

Non parliamo di persone fisiche che fanno mining sul proprio PC di casa, ma di vere e proprie “fabbriche” con decine di migliaia di dispositivi in funzione (perlopiù localizzate in Cina, anche se il governo cinese ha vietato le criptovalute come metodo di pagamento).

Quindi, adesso cosa sta succedendo?

Beh, molte cose e tutte negative.

Alcune avvisaglie si sono già avute quando Apple ha dovuto rimandare il lancio del nuovo iPhone 12. Si può proseguire poi con la continua difficoltà a reperire le console da gioco di ultima generazione, come PlayStation 5 e Xbox X. Infine (una delle pochissime notizie riportate anche dalla stampa italiana) alcuni dei maggiori produttori di auto al mondo (Ford, GM, Nissan, Stellantis) hanno dovuto iniziare a sospendere temporaneamente la produzione in diversi stabilimenti nel mondo, proprio per mancanza di microchip.

Nell’ultimo mese, si è iniziato a vedere una diffusione sempre maggiore di questa problematica, tanto che ad oggi è praticamente impossibile piazzare ordini per circuiti complessi con consegne prima del 2022. Da diverso tempo, le schede video di ultima generazione sono difficilmente reperibili a meno del doppio del loro teorico prezzo di listino.

Si stima che il solo settore dell’auto potrebbe perdere oltre 110 miliardi di dollari  a causa di questa situazione.

Se la crisi dovesse proseguire, potrebbe iniziare a vedersi carenza di molti altri prodotti tecnologici di tutti i generi e/o problemi con la stessa fornitura di servizi di largo utilizzo. Ad esempio, se non si riuscisse a sostituire le apparecchiature necessarie per mantenere l’infrastruttura di internet, potrebbe esserci un rallentamento generale delle connessioni e perdite temporanee di servizio.

Purtroppo, le prospettive non sono rosee. Secondo tutti i player del settore, la situazione perdurerà almeno fino a fine anno. Il presidente della IBM, Jim Whitehurst, ha dichiarato alla BBC che, considerando i tempi e i costi per la costruzione e messa in servizio di nuove capacità produttive per far fronte alla domanda crescente, è plausibile si debba aspettare addirittura un paio d’anni.

Possiamo evitare che accada in futuro?

La vera motivazione per cui ci troviamo in questa situazione è la stessa per cui ad inizio pandemia ci siamo trovati senza mascherine e altri materiali: abbiamo permesso che settori strategici venissero delocalizzati completamente in altre parti del mondo. Certe linee produttive non dovrebbero mai essere assenti o scarseggiare nel territorio dell’Unione Europea, per evitare una dipendenza forzata dall’importazione massiva.

In tutto questo l’Europa sembra avere pochissima voce in capitolo: come suoi cittadini dovremmo forse chiederle di agire a questo proposito e di guardare con lungimiranza al futuro produttivo degli Stati che ne fanno parte.

Articolo a cura di Walter Lain
Editing: Chiara Tomasella
Immagine di copertina a cura dell’autore

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