Oliver Tree e il bello d’esser brutti
Un viaggio alla scoperta di un artista che che suscita tante domande e poche risposte. Un personaggio musicalmente dotato, costruito a regola d’arte, per essere un meme vivente.
“Life goes on” o, meglio, “lifegoesoninoninoninonin“.
Questo pezzo di Oliver Tree è un brano che ti entra in testa e non ne esce più, virale su Tik Tok solamente negli ultimi tempi, anche se pubblicato da quasi due anni; mai sentito dalla sottoscritta girare in radio prima della fine del 2021, anche se aveva, come si è visto, tutte le carte in regola per diventare un commercialissimo e tuttavia piacevole tormentone. È una di quelle canzoni che senti al supermercato e che ti spinge ad utilizzare Shazam con un movimento occhio-braccio-mano incondizionato. Di recente ne è anche uscita una versione featuring con Trippie Redd & Ski Mask, in un video molto gangsta diretto da Cole Bennett.
Mi dichiaro fan di Oliver Tree dagli albori e rientro, a buon diritto, nel top 1% dei suoi assidui ascoltatori su Spotify: lui mi definirebbe un socio ad honorem della sua Scooter Army, se solo sapesse della mia esistenza. Ehi tu, Oliver, se mi leggi… Io c’ero dal day one! Da quando hai pubblicato questa meravigliosa cover di Karma Police che è così tanto Twenty-one Pilots prima che esistessero i Twenty-One Pilots, da causare potenzialmente una crisi d’identità a Tyler Joseph.
Sono fermamente convinta che a questo controverso personaggio non importi nulla di quante persone lo ascoltino: è uno dei pochi artisti sulla scena mondiale che risulta così convincente nel suo ruolo dal sembrarmi un ottimo promotore di sé stesso – quindi un self-manager coi fiocchi – e, allo stesso tempo, il più grande pianificatore della distruzione della sua carriera.
Come lo chiamereste voi, uno che diventa famoso con un album alternative, elettronico, pop rock e anche un po’ trap, e che si presenta sul palco con un improbabile taglio di capelli a scodella, jeans esageratamente kitsch a zampa di elefante, un giaccone sportivo rispolverato da ciò che c’è di più dimenticabile degli anni novanta e ciabatte fucsia di gomma, in barba alla ricercata bella presenza di qualsiasi popstar?
Come lo definireste uno che entra in scena a una prima televisiva negli USA con un rocambolesco backflip su monopattino, dopo aver insultato la politica, il buonsenso e aver proposto un alieno alla presidenza degli Stati Uniti?
E, soprattutto, in quale categoria di incoscienti rientrerebbe uno che riscuote un discreto successo con un genere musicale, che riesce a crearsi un personaggio memorabile e memabile, e che poi lo stravolge del tutto dandosi al country strappalacrime con un discutibile mulletcut biondo platino e un cappello da cowboy in miniatura?
Mai come nel caso di questo controverso ventottenne californiano la linea di confine tra il grottesco e il geniale è stata così sottile. È un artista che o lo ami o lo odi, ma nel vero senso dei termini: è uno che si autodefinisce “out of ordinary” e non fa assolutamente niente per rientrare negli schemi, e che nella sua stranezza si è creato un’identità così solida dal resistere a un totale cambio di look e di genere nel momento in cui ha raggiunto l’apice della sua – per ora – carriera in ascesa.
Prima ha tagliato i ponti con il business della musica, annunciando il suo ritiro; poi, di punto in bianco, ha deciso di uscirsene con l’idea azzardata, inattesa e stucchevole di Cowboy Tears (album country in uscita il 18 febbraio, ndr.).
Così fanno le rockstar, direbbe qualcuno.
In tanti lo hanno definito un troll: vi basterà guardare una sua intervista per non riuscire a orientarvi tra verità e menzogne. Oliver Tree non esce mai dalla sua caricatura: è palesemente costruito a tavolino, e non ne fa mistero. Ha dovuto attendere tre anni per dare alla luce singoli che erano già pronti per il lancio semplicemente perché, per la sua casa discografica, non aveva abbastanza followers. E nel marketing discografico, e non solo, si dice “nel bene o nel male, basta che se ne parli”.
L’album Ugly is beautiful, pubblicato nel 2020, è un capolavoro assoluto per chi, come me, bazzica nel mondo alternative da un bel po’ di anni: il sound è d’impatto, così come i temi che Oliver Tree tratta con una leggerezza disarmante, nonostante siano tutti pesanti come macigni. Consiglio appassionato dell’autrice: guardatevi i videoclip già dal primo ascolto. Nulla, nella produzione artistica di quest’uomo in apparenza illogico, è lasciato al caso: il personaggio che si è creato è un antieroe che perde la vita ad ogni canzone – in ogni video, letteralmente, potrete ammirarlo morire in svariati modi.
La cosa incredibile è che tutto il budget (sicuramente immenso) speso per la realizzazione dei videoclip non ha compreso l’utilizzo di uno stuntman: è così spericolato, quel pazzo di Oliver Tree, dal voler guidare lui stesso ogni sorta di mezzo di trasporto, che sia su una pista automobilistica o in mezzo all’oceano, dall’alto della sua decantata esperienza come scooter professionista su monopattino per cui ha praticamente perso per mesi l’utilizzo dei polsi in gioventù, a seguito di una rovinosa caduta che lui spesso cita parlando dell’ “essere stato quasi un campione olimpico di scooting“.
E, allora, la domanda che vi sorgerà ora spontanea potrebbe essere questa: ma Oliver Tree ci è, oppure ci fa? Ed è una domanda che mi sono posta anch’io spesso, perché inizialmente ridevo dei suoi video e piangevo per le sue canzoni, senza capire in quale punto avesse luogo il connubio.
Credo che la risposta sia racchiusa nel gioellino “The internet“: frutto della collaborazione con i Little Big, gruppo russo pop-punk-rave che, altrettanto caricaturale e weird e che molto probabilmente ricorderete per Skibidi, rientra a pieno diritto tra gli alternativi già emersi da tenere d’occhio:
Welcome to the internet, we’re living in a meme
Intro di “The Internet”, Oliver Tree feat. Little Big, 2021
Digital avatars, hide behind their screens
You can see it in your mentions
We got demons in the comment section
Screaming for redemption
‘Cause they don’t get enough attention”
Oliver Tree è un meme e, soprattutto, Oliver Tree vuole essere un meme, vuole vivere in un meme, e vuole promuoversi come un meme. Nessuno conoscerà mai Oliver Nickell, perchè al pubblico non interessa affatto Oliver Nickell, e va bene così: finchè ci sarà spazio per il personaggio a tavolino, che continuerà giocoforza ad evolversi, assisteremo a cambi di abito e di scena. E – forse sembrerò un po’ fangirl nel dichiararlo – non vedo l’ora di assistere a questo spettacolo.
Vi sfido a trovare un commento spudoratamente negativo nella top comments section di YouTube sotto a una sua esibizione, ad eccezione dei vari “Ma da dove salta fuori questo tizio fuori di testa?”. Oliver Tree non riesce a farsi insultare nemmeno dopo aver sfidato il conduttore di uno show radiofonico in una gara di vaping all’ultima inalazione.
C’è modo e modo di essere strani, e c’è modo e modo di essere un attention seeker: puoi diventare il fenomeno trash del momento e finire nel dimenticatoio, oppure puoi produrre musica meravigliosa, video coi controregisti e spiattellare i tuoi problemi in faccia a chi probabilmente li condivide con te.
E, perchè no, ogni tanto concederti una piccola perla nostalgica in cui non appare la tua caricatura, ma si sente che sei tu.