Perché facciamo le cose che facciamo?

«Fare per fare, senza vedere neppure quello che fate, perché lo fate. E la giornata è passata.» (L. Pirandello)

Quando avevo diciassette anni mio padre comprò un’auto nuova. Andammo insieme a ritirarla come si fa con un premio: orgogliosi, emozionati, forse anche eleganti nel vestire, non ricordo. I sedili emanavano quell’inebriante odore di nuovo che svanisce sempre troppo presto.
Come tutte le cose belle che capitano alla mia famiglia anche la macchina venne consacrata al dio mare: papà la parcheggiò a pochi passi dal molo e andammo a prenderci un gelato lì vicino.

Osservai con leggera delusione che quella gelateria era nei pressi di casa nostra: avevamo appena acquistato un mezzo che avrebbe potuto portarci praticamente ovunque, e invece eccoci qui, nel raggio permesso da un impalpabile eppure fortissimo cordone ombelicale.

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Il tempo mi diede ragione: quell’auto ci portò quasi sempre a casa e nei luoghi di lavoro. Alla gabbia del dovere sono riuscite a sfuggire poche briciole di vita. Ce le siamo fatte scappare, imprudenti, dalle mani impegnate a tenere altro.

Più cresco più corro me ne domando il perché. Viviseziono l’infinita saga delle mie azioni e reazioni, l’insormontabile catasta dei miei impegni, e non riesco a trovarle un significato autentico. Talvolta mi pare solo un interminabile vagare. Perché facciamo le cose che facciamo?

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Super Mario Boh

Qual era l’obiettivo di Super Mario Bros? Saltare e prendere le monetine? No! Sopravvivere? Neanche! Mario doveva sconfiggere il perfido Bowser e salvare la principessa Peach.
La corsa dell’ometto baffuto attraverso tubi circondati da funghi era motivata da ragioni prettamente sentimentali. Nel marasma dei livelli questo risultava persino secondario. Che io ricordi, dei miei compagni di classe nessuno arrivò a portare in salvo Peach, né tantomeno era granché consapevole che fosse quello lo scopo.

La vita da adulti ha più o meno lo stesso andazzo. Una corsa continua verso cosa? Il percorso pare prefissato, almeno a grandi linee, dalle tappe studentesche e relazionali, e ci si illude che la meta sia ciascuna di quelle. Invece non è che l’ennesimo livello, l’ennesimo fungo su cui saltare per giungere sulla rossa capoccia di un altro fungo ancora.

Di Paul Gauguin – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=717355

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Se lo chiese Paul Gauguin nel 1897 quando, nel più drammatico momento della sua vita, si trovò a svuotare l’anima su una tela. Un’opera più amara ed esistenziale delle precedenti, che con le altre condivide i caratteristici tratti polinesiani dei suoi soggetti. Da destra a sinistra i personaggi invecchiano e si rapportano diversamente con l’eden oceanico in cui si trovano.

«il mio sogno non si lascia catturare, non ha alcuna allegoria; è un poema musicale e fa a meno di qualsiasi libretto […] l’essenziale in un’opera d’arte è in quello che non è espresso»

Paul Gauguin

Neanche Gauguin aveva un’esatta idea di cosa fosse nascosto dietro ai significati che egli stesso attribuiva alle sue figure. Il messaggio più profondo che voglia trasmettere è proprio il non-detto: l’interrogativo che dà titolo all’opera è la chiave d’interpretazione ed è quanto rimane scolpito nell’osservatore una volta distolto lo sguardo. Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

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Le “forze invisibili” che ci modellano

Il saggista e life-coach Tony Robbins espose in un TED il suo più grande interrogativo personale e professionale: Cosa fa la differenza nella qualità della vita che le persone vivono?“. Un quesito che si è posto per trent’anni e per il quale gli premeva trovare una soluzione anche in virtù del suo mestiere: quando ricevi una telefonata urgente perché un bambino sta per tentare il suicidio, devi avere una risposta.

Tony Robbins la trovò nelle emozioni. La scusa con cui avvolgiamo con cura i nostri fallimenti personali è la carenza di risorse, siano esse economiche, temporali, tecnologiche, amministrative. Per Robbins sono invece le decisioni a dar forma al nostro destino: quando scegliamo di focalizzarci su un obiettivo investiamo su di esso in primo luogo emotivamente, e le emozioni sono l’anticamera delle azioni. Ed è di azioni che si compone la storia del singolo che sfocia in quella della società e quindi del mondo.

La diversità delle singole storie è quindi figlia di una diversità di allenamento emozionale, ovvero di stato mentale con cui si affronta una stessa situazione. Lo stato mentale rappresenta una delle due “forze invisibili” di cui parla Robbins; la seconda è il filtro, ovvero il personale sguardo con cui ciascuno osserva le cose.

Robbins parla di sei necessità essenziali di un essere umano:

  1. certezze, perché significano stabilità;
  2. incertezze: che noia sarebbe la vita senza sorprese! Sorprese belle, però: le brutte le chiamiamo “problemi”;
  3. importanza: tutti necessitiamo di attenzione. Il modo più rapido per ottenerla è la violenza, tratto distintivo della specie umana che per questo motivo non verrà facilmente lavato via;
  4. relazioni e amore; questi primi quattro rientrano tra i “bisogni della personalità”;
  5. appagamento: gli ultimi due sono i “bisogni dello spirito”: possono essere soddisfatti pienamente solo se c’è una crescita. Se le relazioni o gli affari che abbiamo per le mani non crescono, non si evolvono, “Non importerà quanti soldi abbiamo o quante persone ci amano: ci sentiremo uno schifo“;
  6. dare un contributo che vada oltre se stessi: la vita è una realtà pluralista, non individualista, e quando facciamo esperienza di questo abbiamo soddisfatto il nostro spirito, “stiamo bene”.

Ciò che distingue le vite delle persone è il valore relativo e quindi emozionale che attribuiscono a questi bisogni.

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Perché facciamo le cose che facciamo?

Perché siamo umani e in quanto tali siamo figli delle emozioni. Spesso non ci conosciamo abbastanza da stabilire con piena cognizione cosa sia davvero importante, allora troppi di noi trascinano la propria vita come uno strascico inciampando di continuo sulla realtà.

Facciamo le cose che facciamo spronati dal mantra sociale dell’andare avanti, quando dovremmo iniziare a porci un interrogativo migliore: andare dove, e perché?

Immagine di copertina: www.sanremonews.it

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