Professione: domestica

domestica

Questa è la storia di una donna del Sud. Una delle tante donne il cui destino è stato scritto tanto tempo fa, ma non da loro stesse.

Sono appena arrivata nell’hub del mio quartiere. L’orologio nella grande stanza segna le 9.00 e attendo il mio turno per la mia prima dose di vaccino.

Sono preoccupata di non tornare a lavoro in tempo; ho convinto il Dottore a concedermi due ore di permesso per questa mattina, con grande fatica per una domestica come me. Vaccinarmi è nel mio interesse ma anche nel suo. È anziano, ha superato i 90 anni. Sarebbe il caso di tenerlo al sicuro occupandomi di lui, della sua casa e dei suoi pasti come faccio ormai da trent’anni. Tutti i giorni.

Nel frattempo mi hanno chiesto di compilare un modulo per il consenso informato, ma sono bloccata. Non sapevo di questo. Se per qualcuno può sembrare banale, per me è uno scoglio enorme: “descriva patologie pregresse, farmaci, interventi chirurgici, firme, dati”. Sono in difficoltà ogni volta che devo scrivere o compilare qualcosa. Non scrivo quasi mai perché ho paura di sbagliare. Perché so per certo che sbaglierò. Un verbo, una parola, una frase intera. So per certo che sbaglierò.

È colpa della mia ignoranza! Sono ignorante, sì. E me ne vergogno tanto. Anche se ormai ho confidenza con questo termine così spigoloso, fendente: ignorante. Me lo hanno ripetuto così tante volte; è come un pugno in pieno stomaco, alla fine ho finito per ripetermelo anche io. Sono ignorante, è vero, ma non ne ho colpa. L’ignoranza non è stata una mia decisione. All’ignoranza sono stata costretta, senza nemmeno il mio permesso. E ne sono furiosa.

Guardo il foglio vuoto davanti a me, quasi nascondendomi. Sono sospesa, come la punta di questa penna esitante a pochi millimetri dal foglio. Con fare furtivo mi guardo attorno per cercare qualcuno che possa aiutarmi e al tempo stesso con vergogna per questa richiesta di aiuto. Forse qualcuno mi sta già guardando.
Non so scrivere. Ho il timore costante di commettere errori grammaticali, ortografici e di sintassi. Che figura farei lì dentro se i medici vedessero tutti i miei orrori grammaticali! Non potrei perdonarmelo. La mia è una mancanza che mi mangia le parole. Anche per questo non ho profili social. E beato chi ha inventato i messaggi vocali WhatsApp! Senza quelli, sarei spacciata.

I pensieri sono lucidi, le idee e le argomentazioni chiare, se sapessi come esprimerle o scriverle. La situazione assomiglia a quegli incubi in cui ti viene da urlare a squarciagola senza che esca un filo di voce. La verità è che non ho strumenti per scrivere come vorrei, non ho parole per esprimermi come vorrei e l’insicurezza è un sentimento davvero frustante.  Sono come una penna senza inchiostro.

Ho abbandonato la scuola in terza elementare. Anzi, ad essere precisi la scuola me l’hanno strappata dalle mani. Mi hanno impedito di continuare, anche se io a lezione volevo andarci. Mi piaceva. Ma dovevo fare la casalinga. Nelle famiglie del sud, essere una casalinga è un marchio di fabbrica. Un destino ineluttabile. È la mia collocazione.

Sono nata per le faccende domestiche e in questo sì che sono brava! Mi occupo di rigovernare la casa e lo faccio incessantemente, per lavoro, sette o otto ore al giorno. Quando smetto, salgo su un bus, arrivo a casa e indosso letteralmente i panni della casalinga. Quello che faccio per lavoro, lo rifaccio a casa per dovere.
Alle soglie dei sessant’anni la stanchezza si fa sentire, le giunture di braccia e gambe iniziano a scricchiolare e non ho più lo stesso spirito di qualche anno fa. L’acqua e i detersivi hanno congestionato le mie mani, che in compenso profumano di pulito; le dita sono gonfie e segnate dalle crepe della pelle a causa dell’umidità. Stringere stracci mi ha provocato danni irreversibili e provo vergogna nel mostrarle. Lo smalto che ricopre le mie unghie su queste mani tumefatte è come il trucco di un clown triste e depresso. Ma la casalinga è un lavoro che non va mai in pensione, non c’è da scherzare.

Nel lontano 1970  smisi di essere una bambina. Una volta raggiunti i dieci anni, secondo i miei genitori, i tempi erano maturi per occuparmi della casa, dei miei fratelli e delle sorelle. La mia famiglia sopravviveva a stento. Eravamo poveri ed io ero abbastanza donna per aiutare mia madre nelle faccende domestiche, dicevano. Così fui “ritirata” da scuola. Il mio sogno fu interrotto un giovedì di ottobre. Il banco divenne un fornello; I libri divennero saponi e spugne. Le penne si trasformarono in scope, forchette, cucchiai di legno. Le mie mani erano le stesse, quelle di una bambina sognante, ma ora stringevano strumenti diversi, che avrebbero riscritto e distrutto il mio futuro. Pulire i vetri con un panno fu come cancellare una lavagna. E perfino ai miei occhi, all’epoca, sembrava del tutto naturale. Triste, invece, è pensarci ora.

Mi piaceva la scuola, e mi piace ancora. Non ho mai dimenticato quel sogno interrotto. Chissà cosa sarei potuta diventare se le cose fossero andate diversamente: amavo scrivere, pagine e pagine infinite di parole. Di storie, pensieri. Mi piacevano le ore di italiano. Probabilmente avrei frequentato il liceo classico, e poi ancora l’università di lettere. Che bello! Non è certo quella di oggi, la vita che avevo sognato da bambina. Non rimpiango di aver avuto una famiglia e splendidi figli, ma quello era il mio sogno. Era il mio futuro e me l’hanno portato via. Era la mia unica possibilità. Se pur avessi fallito l’avrei voluto fare con le mie mani. Con queste mani.

La mia unica colpa è stata quella di essere una donna. Una “femmina” in famiglia, dalle mie parti, deve badare alla casa. La scuola è un lusso troppo grande per chi mangia bucce di patate nelle stagioni di magra. Una donna nelle famiglie del sud è una risorsa, sì, ma per la famiglia. Né per se stessa, né per la società.

Fu cosi che mi fecero donna quando ancora ero bambina. A tradirmi fu il mio corpo: il mio seno prosperoso a dieci anni mi rendeva più donna delle mie coetanee, dicevano. E questo pensiero che non mi apparteneva l’ho portato con me per molto tempo, fino a maledire quel corpo. Mi nascondevo, mi coprivo dentro ai larghi maglioni, mi fasciavo il petto; mi chiudevo nelle spalle per non mostrare i seni. Ho odiato essere donna, le sue costrizioni sociali. La vita decisa dagli altri. Ho maledetto questi pensieri non miei. Casa, matrimonio, marito, figli, ancora casa.

Sono arrivata all’ultima domanda del modulo. Professione: domestica.

Ormai è tardi. Devo tornare a lavoro. Compilo il modulo come posso. Mentre attendo il mio turno, leggo e rileggo le mie parole, cercando errori che non so nemmeno trovare. Farò sicuramente una figuraccia per le imprecisioni grammaticali quando il medico leggerà il mio modulo. Qualche “e” senza accento. Qualche “h” dimenticata. Vorrei dire a quel medico che non ho colpa per la mia scrittura. Mi perdoni, la prego! Non ho colpa per questa condizione. E non ho nemmeno più tempo, forse.

Guardo per terra in una timida riflessione. Forse potrei recuperare qualcosa. Sono passati molti anni da quando ho smesso di guardare in alto e ho rivolto il mio sguardo per terra, su un pavimento che oggi lavo tutti i giorni cancellando le macchie dalle mattonelle. Vorrei poter fare lo stesso con il mio passato.

Immagine di copertina tratta dal documentario “La donna che lavora“: l’inchiesta di Ugo Zatterin e Giovanni Salvi sull’occupazione femminile e sul contributo delle donne alla vita socio-economica del Paese.

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Io sono Arnaldo Berardi. Sono nato a Bari il 7 Dicembre del 1989 di un piovoso giovedì d’inverno. Attualmente studente del corso di “Strategie per i mercati internazionali” presso la facoltà di Economica dell’Università di Bari “Aldo Moro”. Sono assetato di conoscenza e vivo la mia vita nella consapevolezza che la cultura sia l’unica via per l’evoluzione dell’anima. Il sogno da realizzare è quello di poter divulgare cultura che possa arrivare a chiunque in qualsiasi parte del globo, indistintamente.

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