Per una nuova Costituente

Il referendum del 20 e 21 settembre ci invita a riflettere sul ruolo e sull’attualità del fondamento stesso della nostra Repubblica: il parlamento.

I referendum costituzionali sono degli eventi particolarmente importanti per la vita politica della nostra nazione. Avendo davanti due sole opzioni, i cittadini sono chiamati ad una scelta precisa, per sua stessa natura divisoria rispetto agli elettori che voteranno l’opposto, in cui la non presenza di una terza opzione favorisce non solo la nettezza di posizioni, affermazioni e convinzioni, ma genera uno scontro serrato e senza esclusione di colpi tra i favorevoli al “Sì” e i favorevoli al “No”.

Noi elettori diveniamo, con tutti i distinguo del caso, dei decisori politici su temi di alta complessità, con il dovere di approfondire il quesito referendario. Il 20 e 21 di settembre verremo chiamati alle urne per decidere sulla riduzione del numero dei parlamentari, che da 945 dovrebbero passare a 600. Questa volta l’ambito della domanda è circoscritto al solo parlamento, permettendo di far entrare lo stesso nel dibattito pubblico. È questa una buona occasione per porre in essere una riflessione sull’origine e l’attualità dell’assemblea elettiva tipica delle nostre democrazie: il parlamento.

Il parlamento per antonomasia, quello inglese, istituito nel XIII secolo. Qui ritratto da Sir George Hayter (1833-1843), conservato alla National Gallery di Londra. Credits: Wikimedia Commons.

Il parlamento “moderno” nasce con la rivoluzione francese e diventa architrave dei sistemi costituzionali degli Stati liberali durante l’Ottocento. L’assemblea dà rappresentatività nel processo legislativo, prima come organo consultivo e poi come organo deliberativo, a coloro che possono essere rappresentati.

La creazione dei parlamenti risponde a delle evoluzioni nel pensiero politico e filosofico in senso liberale e umanista, ma non solo. Nei secoli passati, i parlamenti risolvevano esigenze concrete e pragmatiche, quali l’impossibilità che la partecipazione popolare si potesse esercitare in maniera più o meno diretta come nei centri urbani (come fu nelle póleis greche) e di conseguenza la necessità di garantire dei rappresentanti che connettessero territori e Stato centrale. Nonostante il corso della Storia non sia stato lineare, tra dittature e vari momenti autoritari, il parlamento ha conservato le stesse prerogative. Nello specifico caso italiano, l’unica discriminante fu la devoluzione alle Regioni e Comuni di molte responsabilità amministrativa in ambito locale, avvenuta agli inizi degli anni Settanta.

Posto che il parlamento è la sorgente normativa della vita politica dello Stato, possiamo affermare che negli ultimi anni si è assistito ad una mortificazione dello stesso. L’assemblea è stata progressivamente svuotata di molte sue prerogative nel silenzio più assordante.

Prima pagina della copia originale della Costituzione italiana, conservata presso l’Archivio storico della Presidenza della Repubblica. Credits: Presidenza della Repubblica.

I costituzionalisti hanno lanciato più volte l’allarme, definendo come reiterato il tentativo di aggirare i normali processi di discussione delle leggi. In altre parole, si velocizzano i tempi tramite forzature, certamente legittime, ma che sempre forzature rimangono.

In anni recenti, la decretazione d’urgenza, concessa al governo per i casi che il nome ben declina, è stata utilizzata per leggi tutt’altro che emergenziali. Esempio ne sono il Jobs Act o la riforma pensionistica di Elsa Fornero. La richiesta di porre la fiducia per importanti disegni di legge ha avuto come risultato l’accantonamento di tutti gli emendamenti in favore di una scelta tra un “Sì” o un “No” al provvedimento. Vien da sé che i parlamentari di maggioranza, posti davanti alla possibilità di dover correre nuovamente per un seggio in caso di caduta del governo, voteranno a favore dell’esecutivo, nonostante i comprensibili mal di pancia.

Ogni forza d’opposizione insorge anche aspramente davanti a questi metodi evidentemente al limite della Carta, con proteste su tutti i canali possibili. Nonostante questo, quando si arriva a governare, il potere viene gestito nelle stesse forme, non discostandosi da quei modelli che prima venivano additati come autoritari. L’associazione dei costituzionalisti italiani ha più volte sottolineato queste importanti storture, facendo una disamina accurata delle legislature passate – in particolar modo della XVII – e dimostrando l’incancrenirsi del fenomeno.

Il richiamo costante al disastro è tipico di coloro che vedono in questa trasformazione del governo qualcosa di molto pericoloso per gli equilibri costituzionali. Ed hanno pienamente ragione. Sì, il pericolo è grande. Ma per quanto puntuali, credo che le critiche pecchino per una mancanza di prospettiva storica, soprattutto se riportate ai tempi che stiamo vivendo.

Le camere riunite in occasione del giuramento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 4 febbraio 2015. Credits: Wikimedia Commons e Presidenza della Repubblica.

Chiedere di «ritornare allo spirito dei padri costituenti» è sicuramente una frase importante, ma come tutte le frasi importanti rischia di essere vuota se non le diamo il giusto peso. La costituzione è stata scritta nell’immediato dopoguerra da uomini di varia estrazione culturale che dovevano costruire la colonna portante del diritto italiano, un diritto che avrebbe riconosciuto la libertà della persona umana e la sua dignità non violabile da alcuno. Tutti gli sforzi dei padri costituenti sono stati improntati a rispettare questa stella polare per costruire un sistema istituzionale plasmato sulle esigenze di quel periodo.

Sono passati settant’anni da quell’assemblea costituente e gli stravolgimenti nella società hanno segnato un cambio radicale non solo a livello macroscopico, ma anche nella nostra individualità, nel nostro modo di guardare alla realtà. Le esigenze di un tempo non sono più le esigenze di oggi e non si può realisticamente pensare di affrontare le sfide contemporanee con strumenti obsoleti.

Una riflessione che sia profonda e non dogmatica, libera da pregiudizi di sorta e che riesca a mettere in dubbio quelle che prima si pensava fossero certezze, può aprire la strada a considerazioni non banali che esulino dalla classica opinione secondo cui bisognerebbe ritornare alla centralità del parlamento. Quest’ultima opinione è legittima e motivata da argomenti molto interessanti ma credo che ci sia un errore di fondo che sta nel non volersi domandare come mai ogni governo, indipendentemente dal colore politico, abbia dovuto scavalcare il parlamento nelle sue funzioni: possiamo arrivare a pensare che il vulnus stia nella struttura stessa dell’istituzione parlamentare e non nella singola “volontà di potenza” dei nostri governanti?

La prima riunione dell’Assemblea costituente della Repubblica italiana, il 25 giugno 1946. Credits: Wikimedia Commons.

Il denominatore comune di tutti gli atti governativi volti a far passare legislazioni è la richiesta di accorciare il più possibile la durata dei tempi di dibattito e approvazione delle leggi, ed è proprio a questa necessità politica che io voglio porre attenzione. Gli ultimi trent’anni di progresso scientifico e tecnologico sono riusciti a cambiare la nostra società molto più di quanto abbiano fatto i trecento anni precedenti, non solo aumentando la gamma di oggetti che possono semplificare la vita quotidiana, ma riuscendo a plasmare un modello diverso di comportamento sociale, la cui cifra principale risulta essere, come scrive in un suo libro il sociologo Zygmunt Bauman, l’incredibile velocità che hanno assunto tutte le dimensioni dell’agire umano.

I nostri acquisti ci risultano inutili e obsoleti pochi mesi dopo averli acquistati, le nostre relazioni affettive finiscono facilmente come facilmente iniziano, le giornate che viviamo sono serrate da innumerevoli appuntamenti che incastriamo l’un l’altro senza dare più spazio al tempo libero. Viviamo affannosamente, quasi senza fiato, come contraltare delle innumerevoli possibilità che il mondo moderno ci pone davanti. Questi cambiamenti non possono essere relegati ermeticamente a degli ambiti precisi, ma permeano tutta la società e le sue articolazioni, e niente può escludere questo presupposto da una critica riflessione sulla modernità. La contrapposizione che si va delineando è, di per sé, un’aporia che ha bisogno di essere risolta:

  1. il parlamento come luogo del dibattito e del compromesso, attività quasi catartiche nel loro bisogno di tempo per giungere ad una conclusione;
  2. la società in cerca di risposte veloci a questioni cogenti che rapidamente si presentano come rapidamente vengono sostituite da altre di altrettanta urgenza.

Due direzionalità che si pongono in antitesi, causando quella spaccatura che è la vera causa della disaffezione dei cittadini alla politica ed alle sue istituzioni. Un’istituzione vive del rapporto con i cittadini che rappresenta e non può evitare di prendere in considerazione l’immagine che promana. Più che esasperarsi per la non centralità del parlamento, i cittadini lo percepiscono come il luogo dell’inconcludenza della politica. Un’inconcludenza che rischia di ritardare risposte che vengo avvertite come non rimandabili, il ché rende ancora più colpevole il comportamento di chi ha la precisa delega di risolvere difficoltà.

Alcide De Gasperi annuncia l’approvazione della Costituzione italiana da parte dell’Assemblea costituente, il 22 dicembre 1947. Credits: Wikimedia Commons.

Ecco che il problema supera i confini nazionali. La faglia che segna il divario tra società e istituzioni solca oramai l’intero Occidente, con testimonianze di insofferenza alla politica in tutte le democrazie. Complice l’unicum rappresentato dal bicameralismo perfetto, l’Italia è uno dei paesi dove la distanza tra classe politica e cittadini è più sentita. Quello che abbiamo di fronte non è uno dei tanti problemi del nostro paese e non può essere trattato come tale. La crisi delle democrazie rappresentative ha diverse cause, ma rappresenta la sfida in cui le prossime generazioni si giocano gran parte del loro avvenire. Ricordiamoci: è in ballo la tenuta del nostro sistema Paese che, nel bene e nel male, ha garantito la più grande stagione di libertà e prosperità di cui l’Italia abbia mai goduto.

Riscrivere le regole del gioco diventa oggi un imperativo categorico e il referendum costituzionale del 20 e 21 settembre può far nascere un dibattito che vada oltre la riduzione dei parlamentari. Un grande dibattito sulla futura architettura istituzionale deve essere realizzato in un’assemblea che si ponga come unico obiettivo l’Italia dei prossimi cento anni. Sicuramente non in un parlamento che si occupi, al più, dei prossimi cinque. Un’assemblea costituente formata da politici e tutti coloro che, appartenenti alla società civile, abbiano idee e consenso per riscrivere buona parte della Carta.

Questa è destinata ad essere una suggestione che probabilmente cadrà nel vuoto delle tante proposte costituzionali. Non bisogna però disperare, perché si raggiunge la meta dopo tanti metri percorsi e discuterne ha come sicuro pregio il fatto di iniziare il cammino. La strada è lastricata di ostacoli e molto lunga, però dovrà essere, prima o poi, percorsa.

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Palermitano, classe 2000 (la famigerata). Studio storia e filosofia all'università, ma il campo accademico che più mi appassiona è la filosofia della storia (bel gioco di parole, ma è tutto vero). Cerco di reprimere l'indole eclettica ed enciclopedica che mi porta in mille direzioni diverse contemporaneamente, con scarsi risultati ad oggi. Sono convinto che la scrittura ed il linguaggio non possano mai rendere la complessità del pensiero, motivo per cui non ho risposte semplici e non pretendo di trovarle.

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