Le ragioni del no, con Joshua Honeycutt

«Rischiamo di avere un Senato controllato da quattro partiti principali, di cui il Parlamento sarebbe ostaggio per via del bicameralismo»

Perché votare no al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre? L’ho chiesto a Joshua Giovanni Honeycutt, coordinatore del gruppo di +Europa Pordenone, co-coordinatore nazionale di Figli Costituenti e co-ideatore e primo firmatario del manifesto Terra Libera.

Tagliare il numero dei parlamentari porta ad un risparmio per le casse dello Stato?

Sì, l’Osservatorio conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli calcola il risparmio in 57 milioni di euro l’anno, praticamente un caffè per ogni italiano. Non dobbiamo dimenticare che la buona politica costa ed è giusto che sia così, perché altrimenti solo i ricchi potrebbero permettersi di sedere in parlamento. Il problema sono gli sprechi, non i costi.

Riducendo il numero dei parlamentari si pone un problema di rappresentanza dei cittadini, soprattutto per le minoranze e le regioni meno popolose?

Si pone un problema di rappresentanza soprattutto al Senato. Il taglio infatti è trasversale, ma nel caso del senato – che si elegge per collegi regionali – i numeri devono poi essere ripartiti su base regionale. È evidente che le regioni meno popolose avranno meno collegi elettorali. Ad esempio, la Basilicata si troverà ad eleggere appena tre senatori. Ciò significa che solamente i tre partiti maggiori saranno rappresentati in Basilicata. La soglia di sbarramento reale per accedere al Senato rischia di diventare del 20% in certe regioni, escludendo di fatto i partiti minori.

Rispetto al 1963 – anno in cui il numero di senatori e parlamentari venne fissato per legge a 315 e 630 – la rappresentanza in Italia si è fatta più articolata, attraverso l’elezione diretta dei sindaci, la nascita delle regioni e dunque l’elezione di consiglieri e presidenti di regione, l’elezione dei parlamentari europei. Alla luce di ciò, il numero dei parlamentari può considerarsi troppo elevato e non al passo con i tempi?

Sono d’accordo, ma c’è un problema: con il taglio del numero dei parlamentari avremo duecento senatori, eletti probabilmente con listini bloccati e in rappresentanza di appena tre o quattro partiti nelle regioni meno popolose – basti pensare che il Molise eleggerebbe la metà degli attuali senatori. Questi duecento senatori dovranno decidere riguardo a qualsiasi legge che regola la nostra vita. Insomma, non c’è consiglio regionale che tenga, il Senato è più importante. Non siamo uno stato federale: non possiamo mettere sullo stesso piano la rappresentanza nazionale e quella regionale. La prima è indubbiamente più importante, le leggi dello Stato centrale alla fine prevalgono.

Una delle ragioni per votare sì è quella di portare la rappresentanza politica in Italia su livelli europei. Ha senso paragonare il parlamento italiano ad altri parlamenti europei presupponendo che questi siano migliori e più efficienti?

Non ha alcun senso, noi abbiamo un bicameralismo perfetto, gli altri parlamenti no. Dunque, il nostro sistema è diverso da quello degli altri paesi.

Riducendo il numero dei parlamentari migliorerà la qualità dell’azione legislativa? Oppure in proporzione la percentuale dei parlamentari assenteisti e nullafacenti rimarrà la stessa?

È sbagliato legiferare presupponendo che ci sia qualcuno che non segue le regole. Quella dei parlamentari assenteisti è una colpa loro individuale, al massimo dei loro partiti, certamente non del sistema. Dopo di che, la statistica è una scienza esatta: la percentuale di assenteisti, nullafacenti e corrotti rimarrà la stessa, anche se riduciamo il totale degli eletti. Riducendo il numero di membri nelle commissioni, si potrà forse velocizzare il processo legislativo e renderlo più efficace. Al tempo stesso, però, aumenterà il rischio di ostruzionismo all’interno delle commissioni stesse.

Per migliorare la qualità degli eletti non sarebbe stata sufficiente una riforma elettorale che non prevedesse liste bloccate?

La qualità degli eletti non si migliora necessariamente togliendo le liste bloccate. Basti pensare che la possibilità di esprimere preferenze porta con sé il rischio del voto di scambio o di sistemi clientelari locali. Il miglioramento degli eletti passa necessariamente attraverso i partiti e attraverso una chiara legislazione sui partiti. L’art. 49 della Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non è mai stato approfondito cosa significhi e cosa implichi quel «con metodo democratico» e dunque non si è mai legiferato circa la vita interna dei partiti e, ad esempio, la scelta dei candidati. Posto che la qualità degli eletti dipende dal filtro dei corpi intermedi tra elettori ed eletti – cioè dei partiti -, allora il problema vero è che questo filtro non sta funzionando bene.

Essendo un intervento puntuale e mirato, si può dire che il referendum costituzionale non stravolga la costituzione e di conseguenza non metta in pericolo la tenuta democratica del paese?

È perfettamente legittimo riformare la Costituzione, gli stessi padri costituenti lo prevedevano. Bisogna però stare attenti al come: questa non è una vera riforma, è una manomissione.

Non essendo accompagnato da altri interventi (regolamento delle camere, riorganizzazione delle commissioni, riforma elettorale) il referendum non rischia di essere un provvedimento isolato e privo di un impatto significativo?

Sì, rischia di essere privo di impatto significativo, perché non cambia drasticamente il nostro sistema. Tuttavia, la riforma rischia di introdurre sottovoce una specie di oligarchia, dando in mano la nostra democrazia a solo duecento persone. Nella forma cambia poco, però la sostanza è dirimente. Il rischio è quello di un parlamento bloccato: da una parte la Camera, dall’altra il Senato in mano a quattro partiti a tenere sotto scacco l’azione legislativa.

Uno dei grandi temi della riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, era il superamento del bicameralismo perfetto. Si diceva allora che la lentezza del processo legislativo fosse dovuta a due camere incaricate di svolgere la stessa funzione. Cosa cambia con questa nuova riforma costituzionale? Il bicameralismo non è più un problema?

È il bicameralismo il vero problema endemico dello Stato. Certo, all’indomani del dramma del fascismo il bicameralismo era un meccanismo efficace di difesa delle libertà costituzionali. A settant’anni di distanza un meccanismo così farraginoso e sovrabbondante deve essere superato ed è un peccato che questo non sia all’ordine del giorno. Con il bicameralismo perfetto, l’anello debole è la camera più piccola, cioè il Senato: è chiamato a svolgere le stesse funzioni della Camera, ma con meno membri. Se vincesse il sì al referendum costituzionale, questa situazione si aggraverebbe. Il rischio infatti è quello di avere una Camera dove tutto il panorama politico è rappresentato e un Senato controllato da quattro partiti principali, per i problemi di rappresentanza di cui si parlava prima. A quel punto il Parlamento sarebbe ostaggio dei quattro partiti principali.

Riducendo il numero dei parlamentari – e dunque dando più potere a meno persone – non si rischia di creare una “casta” politica ancora più forte?

Certo, una casta politica interamente in mano ai partiti. Si rischia di creare una oligarchia comandata da tre o quattro partiti e se le cose seguono lo stesso pattern degli ultimi anni, il malcontento nel paese crescerà.

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Perdutamente affascinato dalla domanda che il pastore errante dell'Asia non riesce a trattenere di fronte al cielo stellato: «Che fai tu Luna in ciel?». È lo stupore il sale della vita! Amante della realtà in tutte le sue sfaccettature: continuamente teso alla ricerca della meraviglia e dell'infinito. Acerrimo nemico dell’indifferenza e terribilmente curioso, assetato di conoscenza, inguaribile ottimista. Scrivo per andare oltre, al cuore della realtà.

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