Quei sessanta giorni «belli», passati a combattere il COVID-19

La lettera di un medico dell’Azienda Ospedaliera di Padova: la lotta alla pandemia e la speranza di poter ripartire anche di fronte al dolore più grande.

L’otto Marzo la vita di ognuno di noi è cambiata. Ci siamo trovati a combattere contro un nemico invisibile, la maggior parte di noi lo ha fatto rimanendo chiuso in casa, altri invece sono partiti per il “fronte”.

Roberto Serra, dirigente medico di I° Livello nell’unità bariatrica, presso la clinica medica terza dell’Azienda Ospedaliera di Padova, ha scelto di raccontarci la sua esperienza come medico nella lotta contro il COVID-19, lanciando un messaggio di speranza in questo momento così difficile, che ha segnato e segnerà la storia d’Italia.

La pandemia: una grande occasione

Certamente questa pandemia è stata una disgrazia, una sofferenza, una difficoltà, una sfida. Sicuramente un amaro calice che nessuno di noi avrebbe voluto bere. È stato uno stress estremo per il nostro sistema e per ognuno di noi. È stato certo un dolore che si è riacutizzato ogni volta che ci siamo confrontati con la sconfitta della morte di un paziente, con la nostra impotenza di fronte ad evoluzioni cliniche così tumultuose e ineluttabilmente inarrestabili.
Eppure oggi, che stiamo provando a tornare ad una parvenza di normalità, abbiamo maturato la consapevolezza che il COVID-19 è stato anche e soprattutto una grande occasione.
Ogni organizzazione ha bisogno di essere periodicamente testata e verificata. Nella sua esasperazione, la pandemia da COVID-19 è stata l’occasione di testare e verificare la tenuta fino ai suoi limiti (e forse anche un po’ oltre) del nostro sistema. Ma non vorremmo che questi 60 giorni col COVID restino come una targa alla memoria dell’abilità organizzativa o delle capacità e delle competenze scientifiche del nostro ospedale, o almeno non vorremmo che si ricordasse solo questo, per quanto tutto ciò sia stato encomiabile.
L’epidemia del virus ci si è rovesciata addosso come uno tsunami, un’onda sproporzionata e violentissima che si è gonfiata in un orizzonte troppo lontano e si è precipitata su di noi con una rapidità che ci ha colti veramente di sorpresa. Al rientro nella routinaria frenesia lavorativa, dopo la pausa delle feste natalizie, non abbiamo avuto il tempo di digerire le lenticchie di capodanno che già le prime circolari interne ci invitavano a prendere in considerazione l’allestimento di un piano organizzativo, per una possibile emergenza infettiva virale. Ma nulla che lasciasse intendere la grandezza e la velocità con cui ci sarebbe giunto addosso questa tempesta.

Lo “tsunami” dell’8 marzo

Furono identificati i primi pazienti in un ospedale diverso dal nostro, ma tutti noi avevamo capito che l’ospedale più grande del Veneto e la sede della Scuola Medica di Padova non potevano che assolvere al proprio ruolo di riferimento in questa crisi. Da quel giorno, da quella domenica di festa rovinata, è rapidamente cresciuto in tutti noi un senso di consapevolezza e di coinvolgimento. Gli eventi si sono succeduti con un’accelerazione non calcolata e dopo una sola settimana ci è stato chiesto di trasformare la nostra clinica in un reparto esclusivamente dedicato ai pazienti infetti da questo virus, ignoto alla nostra esperienza.

Non chiamate eroi i medici, gli infermieri, gli assistenti di sanità che da quel giorno si sono trovati nell’occhio di questo ciclone.

Abbiamo visto l’infermiera giovane piangere di paura, perché a casa ha una bambina piccola, di pochi mesi; abbiamo visto i giovani colleghi in formazione specialistica che maturavano l’angosciosa consapevolezza di restare esiliati in questa città a volte madrina a volte matrigna, che li ha adottati solo temporaneamente, separati dagli affetti familiari lontani per chissà quanto tempo. Abbiamo visto la rabbia negli occhi di qualche collega, perché ci si è fatti cogliere alla sprovvista nonostante la nostra storica eccellenza.
In quel momento, proprio in quel giorno in cui abbiamo raccolto la sfida di essere all’altezza della battaglia da combattere contro questo nemico invisibile e sconosciuto, si è iniziata a tessere e a rinvigorire una vera e propria rete di solidarietà e collaborazione.

La “trincea” della Clinica Medica 3°

Non era più un reparto universitario, non era più la clinica dove si coniuga quotidianamente l’assistenza al cittadino con la formazione dei giovani specialisti e con l’incessante lavoro di ricerca e crescita scientifica; la Clinica era diventata una trincea.
E i nodi di questa rete li abbiamo sentiti diventare sempre più solidi e forti quando alla richiesta di aiuto e di collaborazione abbiamo avuto il dono di una risposta corale e prontissima da parte di decine di colleghi. Una chiamata alle armi che ha ricevuto un «presente» detto a voce alta e concretizzatosi immediatamente con l’arrivo nel nostro reparto di colleghi delle altre Medicine, dalla Clinica Medica 5°, dalla Clinica Medica 1°, dalla Medicina Generale. Il «presente» detto dai colleghi delle cliniche specialistiche, dalla Cardiologia, dalle Malattie del Metabolismo. E poi il «presente» entusiasta e pieno di energia, davvero urlato, dai giovani colleghi in formazione specialistica, che hanno indossato per primi ogni dispositivo di protezione e si sono messi al servizio della Clinica, e che, quando si spogliavano di quelle tute, diventavano degli infaticabili topi delle biblioteche virtuali dove andare a scovare ogni notizia, ogni linea guida, ogni evidenza medica che ci potesse aiutare a non annegare in trincea e anzi a pensare di poter essere non solo resistenza passiva, ma anche offensiva contro il nemico che sembrava avanzare arrembante e inarrestabile.

Abbraccio tra medici con divisa Covid-19. Foto fornita, per gentil cortesia, dal Dott. Roberto Serra.

Ecco, vi sembrerà incredibile, ma i nostri 60 giorni in trincea sono stati belli. Nonostante tutto, nonostante le innegabili difficoltà, sono stati bellissimi. Ci siamo sentiti davvero soldati, soldati speciali, con una divisa tutta bianca, dove i nostri antiproiettile erano i copri-scarpe di nylon e i sacchetti di immondizia fissati al polpaccio con il nastro colorato dell’Azienda Ospedaliera. I nostri elmetti erano le visiere di plastica trasparente e le cuffiette di tessuto-non-tessuto. Le mascherine FP2, le nostre maschere anti-gas. E in trincea improvvisamente sparivano i gradi: niente caporali o generali, divise bianche dove ci scrivevi il nome col pennarello, nemmeno il cognome, ma piuttosto ci aggiungevi un fiore, un cuore, una stella, un numero sulla schiena. Niente dottori e infermieri, specializzandi e OSS, niente cravatte eleganti, o scarpine delicate, o zoccoli bucati, o scarpe da corsa, ma bizzarri anfibi che, invece di un rimbombo di tacchi sul selciato, hanno fatto per due mesi fruscio di plastica sul linoleum. Niente primari, ordinari, matricole. Abbiamo imparato a riconoscerci senza guardarci in viso. Abbiamo imparato a riconoscerci solo intravvedendo gli occhi dietro il plexiglass della visiera. Abbiamo imparato a riconoscere quel modo di camminare dentro al sacco bianco della tuta. Abbiamo riconosciuto le risate e il dolore di ogni nostro collega solo con la piega degli occhi o il silenzio; abbiamo imparato ad apprezzare quella risata o quel modo di imprecare, più o meno silenzioso, nelle difficoltà. Abbiamo imparato a conoscerci e a metterci a nudo uno davanti all’altro, molto di più con tutti quegli strati addosso che non se fossimo stati nudi veramente. Non ci siamo privati dei sentimenti perché sopraffatti dalla paura o dalla fatica. Abbiamo riso e pianto insieme, ci siamo protetti e abbracciati anche solo con uno sguardo. Ci siamo ascoltati tanto, parlando attraverso le maschere e fuori dai turni facendo i meeting per via telematica.

Festa di compleanno nel reparto Covid-19. Foto fornita, per gentil cortesia, dal Dott. Roberto Serra.

Ci siamo fatti gli auguri di compleanno e di Pasqua scrivendoceli addosso sulla schiena della tuta. Abbiamo fatto parlare anziani e meno anziani con i figli e i nipoti e i mariti e le mogli con dei tablet e con i telefonini e abbiamo pianto e riso con loro. Ci siamo raccontati barzellette dentro la stanza per far ridere anche i nostri pazienti sotto le maschere dell’ossigeno.

Abbiamo avuto un po’ di fortuna e un po’ di bravura: nessun caduto al fronte. Qualche ferito, ma nessun caduto.

La “normalità” della fase due

E adesso che siamo tornati a casa dal fronte, possiamo guardare indietro e non possiamo negarvi che sentiamo anche una punta di nostalgia. Consapevoli di non aver fatto nulla di eroico, ma solo di aver provato ad assolvere con entusiasmo e con ogni energia a nostra disposizione a quella missione cui abbiamo dedicato (consacrato) la nostra vita, qualcuno da molti anni, altri da qualche mese, ma con uguale impegno e professionalità, solo con il peso dell’esperienza a far da differenza, una zavorra che fa guadagnare in stabilità e sicurezza, ma a volte fa perdere in agilità e prontezza.
Abbiamo imparato tantissimo, abbiamo imparato a proteggerci e a proteggere i nostri colleghi e a proteggere i pazienti. Abbiamo imparato a vestirci in modo corretto e a lavarci le mani e a spogliarci in sicurezza, con percorsi rigorosi per limitare il rischio di contagio. Lo abbiamo imparato da chi lo sapeva fare da sempre, dai nostri infermieri e dagli OSS, che hanno fatto anche gli attori nei video per insegnarcelo e che resteranno nella storia della Clinica Medica 3° in qualche modo anche nella Storia della Medicina, argomento sempre tanto caro ai maestri che hanno lasciato la propria impronta in questa istituzione.

Abbiamo imparato tanto, anche e soprattutto da quello che abbiamo sbagliato o che abbiamo capito strada facendo.

Consegniamo alla storia dell’Ospedale di Padova e della Scuola Medica Patavina i nostri sessanta giorni in trincea, certo senza rimpianti, felici che siano finiti, ma con l’emozione di aver vissuto questi giorni insieme, con quel senso di cameratismo che si è rinforzato e che oggi ci permette di regalarci un sorriso più caldo e meno di circostanza, anche sotto le mascherine. Ci riconosciamo ancora dallo sguardo e dal passo quando ci incrociamo nelle nostre transumanze da un reparto all’altro, da un ambulatorio all’altro nel nostro sterminato ospedale, che in queste settimane ha avuto ancora una volta la conferma di essere uno scrigno in cui sono contenute preziose competenze professionali, ma soprattutto che custodisce un imperdibile ed inestimabile patrimonio umano.

Il Dott. Roberto Serra

Il team di Cogito et Volo è grato al Dott. Roberto Serra per aver potuto pubblicare la sua testimonianza e ringrazia lui e tutti i suoi colleghi per il lavoro svolto durante l’emergenza: avete fatto il vostro dovere con dedizione e amore, siete un esempio per tutti noi giovani che erediteremo questo paese. Ci avete dimostrato, ora più che mai, che «il mondo è un bel posto e che per esso vale la pena lottare».

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