Dietro le quinte di Salvezza: lo stile della testimonianza

Pochi colori, un pettirosso come narratore, un mare di storie: Lelio Bonaccorso racconta Salvezza graficamente e non

Lelio Bonaccorso è stato il primo fumettista a salire a bordo di una Ong. Ha realizzato con Marco Rizzo la graphic novel Salvezza, sulle missioni di soccorso e le vite umane coinvolte. Abbiamo già introdotto Salvezza nella prima parte dell’intervista. Non l’hai letta? Clicca qui!

Mi ha fatto sorridere che tra le prime pagine si legge che sei stato “assunto” per un pelo, avevano già pensato a Zerocalcare come autore. È vero? Con Kobane calling anche lui si è occupato di testimonianza fumettistica su campo: che differenza senti tra i vostri stili?
Quello che leggi nel fumetto è tutto vero! Ho molta stima di questo autore perché è riuscito a cogliere un discorso generazionale ed ha portato ai fumetti tantissimi che prima non li leggevano, e questa è una cosa per cui tutto il mondo del fumetto deve essergli grato.
Zerocalcare ma non lo conosco abbastanza, lui semplicemente racconta la sua vita, tranne quando è andato a fare il fumetto su Kobane. In quell’occasione ha lavorato sul posto, e penso che lì l’esperienza sia stata simile alla nostra: percepire emozioni e trasmetterle, che è quello che fa un narratore, darti qualcosa in cambio della tua lettura.

Per quanto riguarda me cerco sempre di raccontare storie che posso vivere; non è sempre così, a volte devi raccontare storie di fiction, di cui non hai esperienza, e devi immedesimarti il più possibile. Però credo che le storie più efficaci siano quelle in cui riesci a viverle da autore: è più facile trasmetterle le cose, se le vivi.
Il fumetto è quasi interamente in scala di grigi, fanno eccezione le pagine di ricognizione per il lettore. A parte quelle, l’unico colore è l’arancione, il colore dell’Aquarius, dei giubbotti di salvataggio, quindi della salvezza in generale. È arancione anche il petto del pettirosso, che ha una storia bella e triste.
La storia di Robin il pettirosso è assolutamente vera: quando siamo partiti a bordo dell’Aquarius c’erano degli uccellini al porto di Catania che sistematicamente salivano sulla nave e quando si rendevano conto che non potevano più tornare indietro era troppo tardi. Questo uccellino svolazzava cercando di tornare alla terraferma, ma non ci riusciva; lo abbiamo ritrovato morto sotto delle corde, si era nascosto lì. Volevamo dargli da mangiare, ma non ha voluto, si è lasciato andare così. Una storia molto triste che ci è sembrata una buona metafora: molti partono, non molti riescono ad arrivare.

Avevamo bisogno anche dal punto di vista tecnico di un narratore esterno: abbiamo scelto il pettirosso come voce onnisciente che avesse il distacco necessario per fornire anche le info grafiche cui accennavi. Così Robin è diventato il nostro narratore.
Robin viene inseguito fin dentro la nave da un gabbiano, che rappresenta il razzismo. In Salvezza liquidi il fenomeno razzista con una sola vignetta in cui dici: “Non voglio dare spazio a queste stronzate”. Quali sono i luoghi comuni più imbarazzanti che ti sono piovuti addosso quando hai detto che avresti fatto questo reportage?
Con Marco abbiamo avuto le esperienze più svariate. Credo che uno degli scopi della propaganda sia di farci credere che il mondo sia un posto molto più brutto di quello che è realmente; in Italia abbiamo incontrato tantissime persone positive, che però vivono il dramma di essere molto sole: ad oggi non esiste un movimento politico che unisca i più sensibili a questi temi di attualità. Ma abbiamo anche subìto attacchi violenti da parte di personaggi a volte noti e talvolta anonimi: durante le presentazioni qualcuno ci ha urlato contro, ha inveito contro il nostro lavoro, ci ha dato dei venduti, dei figli di, degli imbroglioni. Siamo riusciti a rispondere adeguatamente: le storie parlano da sole.Oggi forse l’insulto più becero è “buonista”.
Quello è prassi. Ci sono persone che in base alle informazioni che ricevono arrivano alla conclusione razzista: dopo averci ascoltati, averci fatto domande, aver visto i documenti ed il libro, hanno cambiato idea.  “Ah, beh, così è diverso. Queste cose non me le avevano mai dette”. Alla fine dei nostri incontri la gente era inevitabilmente d’accordo con noi, ma non perché siamo convincenti o bravi, ma perché le cose sono abbastanza ovvie, solo che non te le raccontano così.Un altro colore che fa eccezione ai grigi è il verde di un giubbotto di salvataggio non “istituzionale”, di quelli che vengono forniti ai migranti prima di partire. Sono giubbotti che non galleggiano affatto. Quali piccoli dettagli hanno completato il tuo personale quadro di questa tragedia?La cosa che mi fa più rabbia è che secondo me la questione dei migranti fa comodo a moltissimi che ci hanno fatto soldi e carriera, dai trafficanti fino a certe forze politiche che vivono grazie al problema e non lo risolveranno mai, perché significherebbe perdere quel fattore emotivo che fa leva sulle persone.

Il giubbotto non viene neanche dato a tutti i migranti, perché ci sono migranti di prima e di seconda classe. Ad esempio i migranti dell’Africa nera sono di seconda classe, partono senza scarpe o borse, senza nulla; quelli di prima classe provenienti dal Maghreb il contrario, perché c’è un forte razzismo del Nord Africa nei confronti dell’Africa nera: ai maghrebini vendono questi giubbotti di salvataggio, a 200 o 300 dollari l’uno, dando loro l’illusione di una maggiore sicurezza, ma erano una presa in giro.
Che paese è l’Italia dopo essere scesi dall’Aquarius? Hai visto il lato umanitario, hai conosciuto persone che dedicano la vita a salvare altre vite, ma conosci anche l’attuale chiusura mentale e di frontiere, l’ambiguità dei rapporti tra il nostro governo e quelli libici…
Penso che quelli che stiamo vedendo oggi siano gli effetti della globalizzazione, che da una parte sono positivi -riusciamo a comunicare velocemente con tutto il mondo- e dall’altra parte negativi- la mercificazione, attraverso il consumismo sfrenato, di qualsiasi cosa, anche gli esseri umani, che diventano oggetti con un prezzo.

L’idea che mi sono fatto è che ci sono persone che in questo momento negativo hanno trovato una spinta evolutiva per farsi domande che prima non si ponevano, ed invece altre che affondano sempre più in questo egoismo sfrenato sovranista che si chiude a riccio di fronte ad cambiamento che avverrà a prescindere da noi. Vedo gente che spera che mettendo un dito in una falla possa bloccare un’onda: la migrazione, un fenomeno che è sempre stato ignorato, avviene anche a causa di cambiamenti climatici. È stato calcolato che entro il 2050 il flusso migratorio che oggi è di 65 milioni di persone diventerà di 200 milioni, che fuggiranno solamente per i cambiamenti climatici. Pensiamo davvero che la gente rischiando la vita, anche quella dei propri figli, si fermerà davanti a un pezzo di mare?Tra le ultime pagine, quando scendete dalla nave, si legge: “Sarebbe interessante fare un libro su cosa  gli succede adesso, su come molti di loro vengono stritolati dalla burocrazia, sulle difficoltà d’integrazione di un’Europa sempre più intollerante”. Com’è proseguita la tua inchiesta sulle migrazioni dopo Salvezza?
Ci stiamo ancora lavorando, vedremo se far uscire qualcos’altro in merito per completezza, per analizzare anche la seconda parte.Alla fine di un’operazione di rescue tu e Marco siete saliti su un barcone ormai vuoto: cos’avete visto e cosa raccontavano quei relitti nel relitto?
Su quella nave c’erano 400 persone, il più piccolo aveva 3 giorni di vita. La cosa che mi ha fatto più impressione in assoluto nel primo approccio con un rescue sono state le urla delle persone quando ancora non hanno il giubbotto di salvataggio. È una cosa che non senti al telegiornale, che mostra i momenti successivi. Prima, quando non sanno ancora se li salverai, urlano come i pazzi, e sono delle urla che ti entrano nella testa e non te le togli più; sono urla di chi sa che sta per morire o per salvarsi. Quando arrivano a bordo baciano per terra, o ti abbracciano, piangono, ti guardano negli occhi, ti ringraziano e ti dicono “Tu mi hai salvato la vita”, quando io ero andato lì solo per fare il mio lavoro. Lì vedi gli aspetti peggiori  e migliori dell’umanità, tutti insieme, e questa cosa non ti lascia indifferente. Non lascerebbe indifferente nemmeno Salvini, secondo me.
Sul barcone c’erano stracci, vestiti, spazzatura, escrementi, quindi cattivi odori. In un altro gommone c’era un cadavere avvolto in un sudario: una ragazza che era morta poco prima di partire per delle complicazioni dovute al parto. Trovi di tutto. Quello che ti fa impressione è che trovi dei rimasugli di vita, biglietti…. una volta abbiamo visto delle piccole fotografie che qualcuno nella fretta aveva lasciato lì. Fa impressione: la marina brucia le barche di legno, quindi vedi questi scheletri, o pezzi di gommone in mezzo al mare, e non sai se la gente che era a bordo è viva, perché le Ong e la marina italiana le segnano con delle sigle, i militari libici no. Secondo me là sotto è pieno di morti. La sensazione che ho io è che ci siano migliaia e migliaia di persone morte di cui non sapremo mai niente, perché il mare inghiotte tutto.
Penso che solo chi ha fatto queste esperienze o abbia vissuto la guerra possa capire davvero, ma almeno una parte di tutto questo deve arrivare alla gente.
Ma anche tutto, nudo e crudo, se serve…
Me lo auguro. È come quando vivi un’esperienza e la racconti: se trovi una persona empatica può provare piacere o dolore in base a quello che le stai dicendo, ma non le arriverà mai tutto. Serve l’abilità, e spero che io e Marco l’abbiamo avuta, nel trasferire emozioni, ma questa cosa l’abbiamo pagata con un bell’esaurimento nervoso, dal punto di vista della fatica fisica, mentale, emotiva, perché non sono carezze. Quando vedi ragazzini che sollevano la maglietta e sono tutti tagliati, accoltellati, rimani lì, non sei preparato. Un soldato, un medico, loro sì, ma io faccio fumetti, t’immagini…

Ma va bene così, si doveva fare e siamo contenti di averlo fatto, di aver fatto una grandissima campagna informativa in giro per l’Italia e che il libro sia stato pubblicato anche in Francia. Spero che abbia sempre una maggiore utilità e che abbia aperto a qualcuno gli orizzonti.
Grazie per l’intervista e per questo libro, la vostra testimonianza è un regalo.
Non penso di aver fatto nulla di straordinario, è il minimo. Anche perché le cose cambiano fino ad un certo punto, sono molto lente a cambiare. Mi dispiace che l’evoluzione di questo pianeta debba essere fatta sulle spalle di gente che non c’entra niente.

Credits immagini: courtesy of Lelio Bonaccorso

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