La comunicazione via stories ci ha resi passivi?

L’uso delle stories ha creato un nuovo modo di comunicare. Quanto è autentico e come migliorarlo? Ne parliamo con Emma Lerro, psicologa.

Pubblico una storia, spero che tu mi risponda. Oh, l’hai vista! Giubilo d’angeli! Suonino le campane, si rianimino i gargoyle! O, più probabilmente, è una visualizzazione casuale dettata da un involontario tocco sullo schermo, o ancor meglio dalla noia durante una pausa. Ma questo non lo saprò mai. È l’incertezza del decennio: m’ama o non l’ha fatto a posta?

Fermi un attimo: stiamo davvero dando importanza a piccolezze del genere? E perché? La comunicazione via stories ci ha resi passivi a tal punto? Lo chiedo alla dottoressa Emma Lerro, psicoterapeuta e blog coordinator del servizio Unobravo.

Credits: Kelly Sikkema on Unsplash
Le stories sui social ci hanno abituati a una valanga di informazioni sulla quotidianità altrui a cui spesso (e volentieri?) non rispondiamo neanche. Questo comportamento è una normale reazione all’abbondanza o siamo diventati indifferenti?

I social media sono diventati ormai una forma di intrattenimento a cui spesso ci rivolgiamo nei momenti di noia. Ma possono anche diventare una dipendenza (soprattutto per i più giovani) e il rischio aumenta soprattutto quando se ne fa un uso passivo. D’altra parte, è il funzionamento stesso di questi media a influire sull’uso che ne facciamo. Ogni giorno aprendo le nostre pagine social compaiono un numero potenzialmente illimitato di post e stories e sarebbe a dir poco impegnativo pensare di poter rispondere a tutte.

Negli ultimi anni siamo diventati un po’ meno reattivi a quello che recepiamo sui social. Del resto, come sarebbe se rispondessimo quel che pensiamo a chiunque pubblichi qualcosa? Un inno alla sincerità o costruiremmo nuove forme di ipocrisia digitale?

Rispondere in maniera sincera e manifestare le proprie idee, che si tratti di vita online o offline, dipende da quanto ci si dà il permesso di esprimere il proprio pensiero liberamente. La paura del giudizio potrebbe essere, infatti, tra i fattori che ostacolano l’espressività e l’uso attivo dei social.

Non dimentichiamo poi che le persone usano i social network per scopi diversi e le differenze individuali in queste motivazioni possono avere conseguenze sulle modalità di utilizzo.

Credits: Jakob Owens on Unsplash
In che modo la comunicazione via stories è influenzata dal tacito accordo delle visualizzazioni e dei like? Se non avessimo modo di verificare che qualcuno li ha visti pubblicheremmo gli stessi contenuti?

I social sono profondamente mutati nel corso degli ultimi anni. Alcuni dei profili che troviamo online possono essere orientati da scopi di marketing, per cui l’interazione sotto forma di like e visualizzazioni è evidentemente ricercata da chi pubblica un contenuto. In molti casi, anche se non si ha un intento commerciale, la ricerca di approvazione gioca sicuramente un ruolo chiave nel tipo di contenuti che si sceglie di pubblicare.

A proposito di scelta dei contenuti: proprio tramite le stories è comune utilizzare vaghi riferimenti a persone o situazioni in modo che “chi ha orecchi per intendere intenda”. Questa tipologia di atteggiamento spesso si rivela fallimentare e causa fraintendimenti. È giustificabile dal mezzo?

Credo che il mezzo metta nelle condizioni di produrre contenuti chiari e quanto più trasparenti possibile. Ovviamente i fraintendimenti possono esserci, ma la possibilità stessa di interagire in maniera attiva commentando i post o le stories potrebbe aprire a nuove occasioni di confronto.

Credits: Erik Lucatero on Unsplash
In che modo si potrebbe risolvere l’utilizzo delle stories come strumento di manipolazione dell’altro e di creazione di una vita artefatta che debba per forza piacere? Chiudendo Instagram? Impedendo la condivisione delle stories stesse?

Un ruolo chiave potrebbe essere giocato dall’educazione ai social media. Ogni utente dovrebbe avere la consapevolezza che la realtà che appare nelle stories è spesso falsata dal fatto che le persone tendono a condividere molto più spesso i loro successi rispetto ai fallimenti.

Come sarebbe Instagram se i suoi utenti non sentissero la necessità di essere approvati? Un passo indietro: esisterebbe Instagram?

Instagram potrebbe anche continuare ad esistere, ma probabilmente vedremo molto più spesso contenuti senza filtri e decisamente più reali di quanto non accada adesso.

Credits: Kate Torline on Unsplash
Quanto è nocivo mettere in atto e subire il linguaggio dei non-detti tramite social e come si può “uscirne”?

Un esempio della nocività del non detto è quanto accade rispetto all’esposizione continua a immagini di corpi che perpetuano un unico, quanto irrealistico, modello di bellezza. Diversi studi hanno riscontrato un’associazione tra uso dei social media e aumento dell’insoddisfazione corporea, che a sua volta può avere un ruolo nell’insorgenza dei disturbi del comportamento alimentare. Anche in questo caso fornire degli strumenti per guardare con un occhio critico i contenuti social può favorire il benessere di chi ne fruisce.

Le stories, come i social in genere, sfruttano un meccanismo biologico, quello della produzione di dopamina in seguito a uno stimolo piacevole, positivo. Queste meccaniche sono quelle che ci mantengono in vita e ci guidano verso quello che ci fa star bene. In che modo dovremmo interpretare il fatto che ci faccia star bene un random click su una foto?

Il click su una nostra foto, che spesso corrisponde al “mi piace”, ci fa stare bene perché risponde ad alcuni bisogni che tutti abbiamo, quelli di stima e appartenenza. Nel nostro passato evolutivo a questi bisogni era legata la nostra stessa sopravvivenza, perché essere stimati significava far parte del gruppo ed essere nel gruppo ci ha resi più forti nell’affrontare potenziali pericoli.

Oggi continuiamo ad avere la necessità di essere apprezzati e riconosciuti e il soddisfacimento di questi bisogni è alla base dello sviluppo di una sana autostima.

Credits: alex bracken on Unsplash
È facile illudersi e chiamare interesse quello che il più delle volte è una visualizzazione casuale. Cosa consigli per guarire da questo bisogno di conferme?

La ricerca di approvazione e il bisogno di conferme possono influenzare negativamente non solo il nostro modo di stare sui social, ma anche molte delle nostre scelte quotidiane. In questi casi può essere d’aiuto iniziare un percorso psicologico per acquisire maggiore consapevolezza di sé e del proprio modo di stare in relazione con gli altri sia online che offline.

La comunicazione passiva tramite social favorisce contenuti “belli” in cui si mostra la parte migliore o contraffatta della vita. Ci stiamo dirigendo verso un futuro alla Ready Player One, in cui la realtà virtuale sostituisce del tutto quella fisica perché la supera di gran lunga?

Il virtuale può rappresentare un mondo ideale in cui rifugiarsi e allontanarsi dai problemi della vita quotidiana, ma non penso che questa fuga dalla realtà sia il futuro che ci attende.

Dopo la pandemia da Covid-19 e il distanziamento sociale, ad esempio, molte persone hanno cominciato a sentire la necessità di tornare ad abbracciarsi e avere contatti con gli altri nel mondo reale.

Alcune nuove offerte social come BeReal stanno tentando di restituire genuinità al concetto di stories. Ci stanno riuscendo?

È presto per dirlo, ma l’idea di postare delle foto senza filtri, solo in momenti specifici della giornata è molto interessante. Un’altra peculiarità di BeReal è il permettere la visione di contenuti soltanto a patto di condividere qualcosa a propria volta, in modo da scoraggiare l’uso passivo del social per poter essere parte attiva di una community.

Questo aspetto è molto importante soprattutto alla luce degli studi che hanno correlato l’uso passivo dei social a una diminuzione del benessere soggettivo.

avatar

Su di me: il cielo stellato

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.