I miei stupidi intenti: la faina finalista al premio Campiello

Bernardo Zannoni entra nella cinquina finalista del premio Campiello con la storia di una faina alla ricerca di Dio

Lo so, lo so, è facile parlare bene dei libri che ami.
Ma quando certi libri lasciano segni profondi, come nel caso de I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, tutto quello che vuoi fare è parlarne, scriverne, assillare gli amici lettori. Ed eccomi qui allora a parlarvi di uno dei cinque libri finalisti alla 60° edizione del Premio Campiello.

La trama

I miei stupidi intenti è «la lunga storia di una faina, raccontata di suo pugno». Archy, la faina protagonista, nasce in una gelida notte d’inverno, in una tana nascosta tra le radici di un albero. Con lui la madre e il resto della cucciolata. Vive in un bosco ornato da colline e fiumiciattoli, pieno di insidie e di meraviglie, non troppo lontano dalle case degli uomini.

È la faina in prima persona a raccontarci la sua storia: la storia di un figlio rifiutato da una madre insofferente e violenta, venduto in cambio di cibo a una volpe usuraia di nome Solomon. Dopo essersi rotto una zampa Archy è infatti un peso per la sua famiglia, una bocca in più da sfamare. Solomon non ha parole gentili per la faina: con cipiglio severo lo costringe a lavorare tutto il giorno, ad accudire le galline, a rifornire di acqua l’abitazione.

Ma la volpe, vedendo in Archy un discepolo fedele e obbediente, gli insegnerà qualcosa di sconvolgente: da lui imparerà infatti la cosa più umana di tutte, la lettura. Ma anche qualcosa di più profondo di questo, la lettura della parola di Dio.

Si apre così fra le zampe di Archy un nuovo mondo di domande, di possibilità, di misteri, a cavallo tra razionalità e istinto, tra giustizia divina e giustizia terrena. Chi è Dio? Perché l’uomo e la volpe ne sono ossessionati? Perché c’è il male? Cos’è il castigo? La vita di Archy è un miracolo che si dischiude silenzioso nel cuore della natura.

E così io pensavo, per non sprofondare in quell’assurda consapevolezza. Rivedevo la mia vita fino a quel punto e contavo quante volte mi era balenato in testa di poter morire. Nessuna. La morte aveva sempre toccato chi mi circondava, mai me; nel mio esistere la escludevo a priori, abbandonata dietro l’evolversi dei miei giorni, che credevo avrebbero continuato a scambiarsi senza orizzonti. Fui colpito da una forza invisibile. Il peso dell’aria, della terra sotto le zampe, del cielo, del bosco, di ogni fiume mi schiacciò sotto di sé. Mi spezzai a metà. Digrignai la bocca, presi poco respiro, e con il cuore a spaccarmi il petto iniziai a piangere anch’io.
“Non ci credo”, biascicai. “Non voglio”.
La vecchia volpe prese un lato dell’oggetto e lo aprì. Aveva tante strisce sottili legate assieme, piene di simboli mai visti, incise in linee orizzontali. “È detto qui, è la parola di Dio. Ognuno ha una fine”.
“Chi è Dio?”.
“È il padre del mondo”. La vecchia volpe si asciugò di nuovo le lacrime. “L’unico che non muore”


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L’animale che mi porto dentro

Gli animali di questo romanzo parlano, si innamorano, hanno le stoviglie, rifanno i letti, spolverano i pavimenti, hanno i tassi d’interesse, fabbricano la carta. Ma è proprio quando la narrazione inizia a sovrapporsi inconfondibilmente alla vita umana che accade qualcosa. Qualcosa di feroce e selvaggio, violento e carnale. Qualcosa che ci ricorda che la vita animale è sempre una lotta per la sopravvivenza, guidata dai bisogni e dagli istinti più feroci. Qualcosa che ci ricorda le molteplici insensatezze della ragione, l’impulsività della vita.

È questione di un istante: Archy è al lago con la sorella Louise e mentre giocano, all’improvviso, il loro istinto prende il sopravvento e si accoppiano. Archy è schifato dal fratellino più piccolo, Ottis, il più debole della cucciolata; prova pena per lui e se ne dispiace. Ma poi il freddo, la fame, un pensiero: “potrei mangiarlo, tanto a lui cosa cambia? Deve morire”. Una sensazione, un profumo, uno sguardo, una goccia di sangue. E l’animale che si porta dentro prende il sopravvento.

Il lettore, scosso da tanta ferocia, inizia a chiedersi dove sta il limite tra l’uomo e l’animale.

Non sentivo fatica, né il mio respiro basso e regolare, tantomeno il dolore delle unghie tirate sul legno; ero solo quello che vedevo e ciò che stavo facendo, l’animale nel suo spirito, nell’istinto più radicato.

L’esordio di Zannoni è un’opera viscerale

Bernardo Zannoni, con la sua opera d’esordio, convince con una scrittura magnifica, sanguigna, pulsante, in grado di evocare un limbo di sensazioni e immagini prometeiche, cosmogoniche. I miei stupidi intenti riesce a ricreare l’origine di quello che, in maniera antropocentrica, crediamo essere il fattore discriminante dell’essere uomo: la coscienza, la conoscenza, la parola, la lettera, Dio. E la condizione alla base di queste cose è la soglia tra la vita e la morte, il pensiero che un giorno tutto finirà.

Zannoni ci porta così a indagare l’importanza della lingua, il suo renderci esseri senzienti e razionali, ma anche il suo essere tranello e insidia e dubbio. La parola, che crea e distrugge, che delinea la conoscenza e il sapere, apertura alla trascendenza. La parola come tentativo di raggiungere Dio e di colmare quel divario, che forse proprio nel concetto di dio si nasconde, tra uomo e animale.

I miei stupidi intenti è un romanzo di una genuinità travolgente, una storia semplice ma incisiva e viscerale, un mix potente tra le favole di Esopo e il romanzo di formazione. Quasi un tentativo di portare su carta la profondità e l’angoscia terribilmente umana di Bojack Horseman, il cavallo antropomorfo di Netflix. Una narrazione avvincente ed esaltante, che ci pone di fronte alle domande più profonde dell’essere, in un metamorfico rimando tra uomo e animale.

Con la sua opera prima Zannoni conquista un posto in finale al premio Campiello, che merita di sollevare. Perché il suo libro è in grado di racchiudere le paure primordiali di un essere vivente, con la semplicità, l’istintualità e la ferocia di un animale/uomo e il suo spasmodico anelare al di più, al Significato.

Foto di copertina di Zdeněk Macháček (Unsplash)

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Laureata in Scienze filosofiche e ora studentessa del Master Professione Editoria cartacea e digitale a Milano. Quando non leggo, scrivo. Quando non scrivo, guardo film. Quando non guardo film, parlo ai miei amici dei film che ho appena visto. Quando non faccio nessuna di queste cose di solito sto cercando di replicare qualche ricetta di Masterchef.

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