La gara a chi sta peggio

Mal comune mezzo gaudio? E no, qui ognuno mette insieme il suo mezzo dramma e ne facciamo uno intero.

Come stai?
Mah, tu come stai?

Signori e signore allacciate le cinture: quando uno dei due interlocutori inizia la frase con borbottii terminanti con la h muta (vedi anche “bah”) c’è da preoccuparsi. Ecco che si avvia il decollo verso il pianeta Io sto peggio, abitato da creature antropomorfe, mezze Se anche tu stai male mezze Io non sto certo meglio.

L’habitat naturale di queste genti è qualsiasi contesto deputato alla fatica: lo studio, il lavoro, le faccende domestiche, gli infortuni sportivi; queste occasioni fungono da raccolte dati per quando qualcuno chiederà loro come si sentono, in modo da surclassare qualsiasi doloricchio altrui con l’imponenza della loro immane sfortuna. Il più rischioso aspetto del suscettibile carattere degli abitanti di Io sto peggio è la sua spaventosa contagiosità: chiunque intrattenga un discorso con un Iostopeggese diventa egli stesso un Iostopeggese.Mal comune mezzo gaudio? E no, qui ognuno mette insieme il suo mezzo dramma e ne facciamo uno intero.
Perché la comune tendenza nell’ascoltare qualcuno che si lamenta è lamentarsi altrettanto, come se la condivisione delle proprie angherie fosse un insulto alle nostre. Ehi, ho anch’io il mio problema! Guardalo, è più grande del tuo, e anche del tuo, e di quello di tutti! Okay, hai vinto tu, stai proprio combinato male. Ecco, infatti.

E ora che hai vinto che fai? La vittoria è una cosa positiva, è una cosa tipica dei nemici, i fortunati! L’Iostopeggese è intrappolato dalle sue stesse azioni. Può solo tacere, cambiare argomento ed aspettare che qualche povero pollo si lamenti di essersi bagnato le scarpe nuove in una pozzanghera. Una pozzanghera? Noi soffriamo l’oceano! Non sono queste le cose della vita, sapessi…Quali sono allora, le cose della vita? E cos’è la vita se non un susseguirsi di cose? Se esistesse una gerarchia di dolori di cui è possibile lamentarsi non l’avremmo già abbattuta dicendo che non c’è davvero alcun motivo valido per rendersi i giorni più tristi e pesanti? Quando vediamo chi ha appena visto morire qualcuno che amava non gli diciamo forse di andare avanti e lottare? O lo “autorizziamo” a soffrire perché ha ragione di farlo?

Il melodramma degli ipocondriaci mi pone sempre davanti ad un grande interrogativo sulla legittimità dei sentimenti, e cioè mi chiedo se essi possano essere paragonati, soppesati, valutati su una scala crescente di benessere o malessere. Se ad un Iostopeggese rispondessi che non dovrebbe più lagnarsi non starei io stessa giudicando il suo modo di pesare gli eventi? E se, per evitare l’ondata di autocommiserazione in risposta, limitassi a qualche accenno il racconto dei miei mali, non starei forse rinunciando a parte del mio essere?La triste realtà è che scavando in fondo alla memoria anche il più allegro di noi troverebbe motivi di rammarico. La felice realtà è che l’antidoto alla tendenza tragica è la compagnia: la certezza di non essere soli ci fa abbandonare il pensiero di avere problemi o di non avere soluzioni.
Se stiamo bene insieme dimentico la mia necessità di ripeterti sempre le stesse frasi, di ripassare una ad una le difficoltà della giornata e le ansie future, se mi sei vicino mi distrai dal mio egocentrico vuoto di bellezza, e trovo il tempo di ricordarmi che sono viva, che anche tu sei vivo ed hai bisogno, come me, di ascolto.

Come stai?
Prima che ti risponda: e tu, come stai?

Signori e signore allacciate le cinture: quando uno dei due interlocutori inizia la frase con “e tu come stai?” si decolla verso il pianeta Tutto andrà meglio, abitato da creature umane.

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Su di me: il cielo stellato

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