Olivetti: un’utopia tutta italiana

La storia della fabbrica Olivetti: orgoglio o rimpianto?

Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello di cui non si ha voglia, capacità coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.

Queste concise, efficaci parole pronunciate nel lontano 1924, riecheggiano ancor oggi nel piccolo paesino d’Ivrea a circa 50 chilometri da Torino. Qui un imprenditore Adriano Olivetti, con i suoi operai, ingegneri, collaboratori sfidò il mondo. Ebbene sì in quella fabbrica fondata dal padre Camillo, l’Italia scriverà una pagina storica dell’industria delle macchine da scrivere e dopo ancora, del settore elettronico.

“Un anarchico”, “una minaccia”, “un imprenditore rosso”, così gli industriali dell’epoca descrivevano la figura di Adriano Olivetti. Chi era veramente quest’uomo? Un imprenditore e un ingegnere chimico ma anche un pensatore, uno scrittore, un visionario che mise in primo piano gli interessi dell’operaio, dell’uomo, dell’individuo in luogo del profitto.

Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?

In un clima politico e sociale difficile, Adriano pose il suo sguardo oltre l’establishment del capitalismo e marxismo: comprese prima il bisogno di cambiare gli uomini e poi la necessità di riformare la società in cui essi vivevano. Prima sognò e poi realizzò un nuovo modello di fabbrica: il modello comunità. Gli operai non sarebbero stati più semplici schiavi al servizio del padrone ma individui, menti pensanti, e dal miglioramento delle loro condizione di lavoro e formazione professionale sarebbe dipesa la loro produttività e quindi il profitto dell’azienda. Lo stabile doveva rappresentare l’anima dell’Olivetti: via i muri di cemento, vennero costruite grandi vetrate; la luce doveva avvolgere il lavoro di ogni operaio. Vennero costruite biblioteche, i salari vennero aumentati, gli orari di lavoro diminuiti.

Il mondo industriale di quegli anni guardava stupito lo sviluppo esponenziale dei prodotti dell’ormai “sistema olivetti”. È l’anno 1950, viene lanciata la Lettera 22 e da lì è storia: la tastiera incorporata nella carrozzeria, la valigetta con maniglia ad agevolarne il trasporto, il peso minimo (3.7 kg) e le ottime prestazioni le permetteranno in poco tempo di sostituire le tradizionali ingombranti macchine da scrivere. “Think different” si leggerà 20 anni più tardi su un manifesto Apple, ma Adriano Olivetti aveva afferrato questo concetto ben tempo prima di Steve Jobs. Non bastava offrire al cliente un grande prodotto, doveva essere anche bello e venduto in un luogo che doveva esaltarne i caratteri innovativi. Il design doveva rendere il prodotto simile ad un’opera d’arte, come un pittore con la propria tela da disegno. La vita di Adriano Olivetti si spegnerà il 27 febbraio 1970, non prima però di assistere alla nascita dell’ELEA, l’elaboratore elettronico automatico, il primo super computer a transistor dell’epoca.

Avrei preferito interrompere qui l’epopea del mito Olivetti, con un lieto fine insito d’orgoglio tutto italiano ma purtroppo non è così. La morte Adriano segna l’inizio di una veloce e violenta crisi che porterà alla cessione della divisione elettronica alla General Electric. Svaniscono il sogno e l’opportunità di conquistare una leadership nel settore informatico e di anticipare il successo che Apple, Commodore e tante altre piccole aziende americane otterranno dal 1975 in poi con i primi personal computer.

Quest’anno la città di Ivrea, la ormai ex Silicon valley italiana, è stata proclamata patrimonio dell’Unesco. Ma cosa resta a noi oggi realmente del “mito Olivetti”? Resta soprattutto il rammarico per la deliberata incapacità della classe politica italiana di comprendere l’importanza di guardare al cambiamento, all’innovazione, al futuro. Restano le scelte scellerate dei vari gruppi industriali susseguitisi negli anni – Agnelli, De Benedetti, Colaninno, Pirelli e Benetton – che hanno trasformato quello che era l’Utopia di Adriano Olivetti nella, ahimè, solita utopia tutta italiana.

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Studente d'Ingegneria, amante del mondo, della bellezza, dei numeri. La scrittura mi permette di unire la cultura umanistica con la scienza, due mondi apparentemente distanti ma in verità complementari, indispensabili l'uno per l'altro. Cerco di vivere la mia vita alla costante ricerca di un'incognita “x", in grado di dare una risposta a tutte le mie domande. Come scriveva Montale “sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai, perché tutte le immagini portano scritto: più in là”!

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