Perché non possiamo fare a meno di credere

Nietzsche aveva torto. Dio non si può uccidere, l’uomo rimane un essere religioso.

Ma tu credi?

È questa la domanda che almeno una volta, fin da bambini, abbiamo sentito pronunciare. Una frase semplice, lineare ma capace di mettere in difficoltà sia ragazzi che adulti. Sono consapevole del fatto che parlare di fede, di credo, di senso religioso, al giorno d’oggi, sembri quasi impopolare. Del resto siamo i figli del duemila, di Internet, degli smartphone, di un mondo troppo veloce, che ci imbavaglia nella sua grande rete. Ecco che oggi i giovani sembrano troppo distanti da quei valori religiosi d’amore, di speranza e compassione ai quali le generazioni prima di noi erano molto legate.

Ricordo ancora, qualche annetto fa, seduto sui banchi del liceo, lo stupore nell’ascoltare durante una lezione di Filosofia, un passo della Gaia scienza di Nietzsche. Un uomo in tunica, un profeta forse, che passeggia per una piazza con una lanterna in mano. Cerca disperatamente Dio, e non trovandolo, grida:

Dio è morto! Noi lo abbiamo ucciso.

Una delle più celebri immagini di Friedrich Nietzsche (1844-1900), fonte Wikipedia

Potremmo stare ore a dibattere su quanto le istituzioni e le tradizioni stiano perdendo la loro componente religiosa in luogo di un conformismo sociale, utilitaristico e consumistico. Ma siamo davvero convinti che l’uomo possa arrivare a uccidere Dio? Siamo davvero convinti che l’uomo possa privarsi del primordiale istinto di religiosità? Siamo davvero convinti che l’uomo possa vivere la propria vita senza una fede? Per rispondere, dobbiamo riflettere in profondità su quello che è il nostro “essere religiosi”.

Cos’è realmente la «fede» e qual è il suo significato?

Il termine fede, datato tredicesimo secolo dopo Cristo, deriva dal latino fides, ed è definibile come l’adesione a un messaggio o un annuncio fondata sull’accettazione di una realtà invisibile, la quale non risulta evidente, e viene quindi accolta come vera nonostante l’oscurità che l’avvolge. Fin dai tempi più antichi l’uomo ha sentito l’esigenza di affidare la propria vita a un ideale più alto, a un’entità superiore. Gli uomini primitivi veneravano alcuni il fuoco, alcuni i fulmini, gli egizi veneravano addirittura i gatti come delle divinità. Quante volte, anche ai nostri giorni, abbiamo sentito usare il termine fede anche oltre il mero lato religioso: la fede che unisce un uomo e una donna, la fede in un partito politico, la fede in una nazione.

Se una sera di luglio del lontano del 1982, qualcuno avesse osato chiedere all’interno di un bar o in una piazza «E tu in cosa credi?», in una frazione di secondo sarebbe stato travolto da un tempestivo «Zoff, Collovati – Scirea – Gentile – Cabrini, Oriali -Bergomi – Tardelli, Conti – Graziani – Rossi». Da buon calciofilo quale sono non posso non ricordare la fede sportiva, in particolare la fede calcistica: un colore, una bandiera, undici giocatori che, la domenica dopo pranzo, uniscono intere generazioni.

L’Italia campione del mondo del 1982, fonte Wikipedia

Quanti despoti e tiranni nel corso della storia hanno strumentalizzato il concetto di fede per incrementare il loro consenso: in uno dei suoi famigerati discorsi, Benito Mussolini decantava «il credo fascista». Quante guerre, dai tempi delle crociate fino ai nostri giorni in Medio Oriente, quante vite spezzate, quante bombe esplose in nome di una fede verso un Dio che non si conosce, in realtà spesso solo pretesto che cela meri interessi politici ed economici di governi e sovrani o fanatici estremisti.

Sarà il filosofo danese Søren Aabye Kierkegaard ad analizzare nella sua opera Il concetto dell’angoscia, il terzo stadio della vita dell’uomo, lo stadio della fede.

La Natura dell’uomo è problematica, l’essenza dell’uomo è l’angoscia, l’angosciante possibilità di poter vivere, l’angosciante possibilità della libertà.

Søren Aabye Kierkegaard

Per Kierkegaard il dramma della vita nasce dalle libertà concesse all’uomo al momento della creazione, dall’aut – aut che il mondo inevitabilmente ci impone. Da bambini non eravamo obbligati a scegliere, c’era il papà e la mamma a farlo per noi. Ma quando si cresce, quando la voce incomincia a cambiare, i peletti della barba incominciano a spuntare, ecco che ci ritroviamo davanti il dramma e l’angoscia delle scelte.

Il filosofo danese Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), fonte Wikipedia Commons

Riconoscere la finitezza dell’uomo

È proprio questa la condizione esistenziale dell’uomo, inevitabile, insuperabile, inguaribile. Tra le tante scelte, ecco presentarsi l’unica strada percorribile che riesca ad attenuare la sua angoscia: la fede.

Il passo supremo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano: essa è debole se non arriva a questo.

Blaise Pascal

Così affermava il filosofo Blaise Pascal, scienziato geniale e profondamente credente. Nella visione del filosofo francese, l’uomo è descritto come una canna al vento, ma pensante, che ha compreso la propria drammatica condizione di finitezza, e quindi si trova in continua propensione verso l’alto. La grandezza e l’autenticità della fede sta proprio nel riconoscere che essa è «senza ragione», «gratuita» e «rischiosa».

Allora ecco che l’uomo utilizzando gli strumenti della scienza e della ragione cerca di scavare il più possibile alla ricerca delle proprie risposte. Ma anche l’uomo più intelligente, la mente più brillante arriverà a un punto della scacchiera dal quale non saprà più fare la mossa successiva. Nessuno scienziato, nessuna teoria evoluzionistica, infatti, è stata e probabilmente sarà mai in grado di spiegare perché si sia passato dalle rocce ai primi essere viventi, dai corpi inanimati ai corpi animati.

Per Blaise Pascal l’uomo è come una canna in balia del vento, ovvero della propria finitezza. Fonte Flickr

Ecco che allora alla domanda «Ma tu in cosa credi?», mi ritrovo spiazzato.

Non so né, probabilmente, nessuno saprà mai, se esista veramente un essere superiore, né che forma e nome abbia, né se abbia mai giocato con i dadi della nostra vita. Sappiamo soltanto che proprio come un bimbo appena nato ha bisogno di essere accudito, come un atleta ha bisogno di essere allenato e spronato, ecco che l’uomo crede perché sente il bisogno di non correre da solo nella lunga e faticosa maratona della vita. Non so in cosa credo, ma sento solo, un disperato bisogno di doverlo fare.

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Studente d'Ingegneria, amante del mondo, della bellezza, dei numeri. La scrittura mi permette di unire la cultura umanistica con la scienza, due mondi apparentemente distanti ma in verità complementari, indispensabili l'uno per l'altro. Cerco di vivere la mia vita alla costante ricerca di un'incognita “x", in grado di dare una risposta a tutte le mie domande. Come scriveva Montale “sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai, perché tutte le immagini portano scritto: più in là”!

2 Comments

  1. Credere è solo un’esigenza umana, un’ancora nell’insicurezza. Quando la perdi sei libero ma quasi invidi chi ha quel bastone al quale appoggiarsi al quale chiedere e semmai essere perdonato.

  2. Nel mio primo libroi “Tu,uno di noi” tra i vari temi affronto – da ignorante- anche il tema del “creedere”. La mia sintesi è che si tratta solo di un’esigenza umana, una comodità in più.

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