Terzo anno: la svolta?

Proseguono le puntate del racconto di Giada Penello: ecco il link all’episodio precedente.

Tutte le mie speranze stavano nel terzo anno, l’anno che da tutti era stato definito di svolta. Con il terzo anno, infatti, avrei cambiato la maggior parte degli insegnanti, compresi quelli di latino, greco, italiano e storia. Avrei iniziato nuove materie come filosofia, che mi incuriosiva tantissimo, letteratura greca e latina, da cui non sapevo assolutamente cosa aspettarmi. 

Di fatto quel passaggio ribaltò di molto la situazione, ma non totalmente. 

Avevo un’insegnante di latino e italiano e un’altra di greco. Erano molto diverse l’una dall’altra, ma entrambe erano dei tipi particolari. 

La prima già colpiva per il suo aspetto. Vestiva sempre di scuro, ma aveva una carnagione chiarissima e i capelli ormai bianchi. Dicevamo che assomigliava a Squiddi Tentacolo di Spongebob. Caratterialmente era molto distaccata, come la mia precedente insegnante, cocciuta, sia nel pensare che tutti copiassimo, sia nelle sue idee, che mai si potevano contraddire all’interno di un tema, pena una discussione infinita in classe. Anche lei era molto preparata. Mai scorderò la bellezza di aver studiato Dante, Petrarca e Boccaccio con lei. 

La professoressa di greco, invece, era molto estroversa, interagiva molto con noi e ci si poteva scherzare insieme. Era però caotica nelle spiegazioni, spesso risultava difficile starle dietro e, a volte, non capivamo nemmeno quali fossero i compiti per casa. Lunatica quando non era in giornata, sembrava davvero un’altra persona. 

Nonostante i cambiamenti del terzo anno e nonostante ammirassi entrambe con i loro pregi e difetti, la mia situazione non variò poi molto. Nelle versioni facevo sempre schifo, nei temi non brillavo, mi salvavano solo le interrogazioni di letteratura.

Amavo la letteratura, riuscivo a trovare sempre un pezzo della mia storia, trovavo Carmen. Era come se ognuno di quegli autori l’avesse incontrata, l’avesse conosciuta, ma, soprattutto, fosse riuscito a renderla sua. Guardavo con invidia a quelle menti che erano riuscite a essere all’altezza di Carmen, erano riuscite a dominare il suo immenso potere. Attraverso le loro parole, potevo vedere come sarebbe stato essere amati da lei, come era infinitamente bella vestita da sposa e amorevole come moglie

Immagine tratta da Pexels

Nessuno, però, parlava mai di quanto fosse crudele. Fu in quell’anno che iniziai a rendermene conto.

Carmen era cattiva. 

Fino ad allora non lo avevo mai pensato, ma stava diventando sempre più evidente. Carmen, ormai, mi escludeva da ogni cosa della sua vita, mi prendeva in giro insieme alle altre ragazze, mi insultava, e poi tornava da me a darmi un bacio. Lo faceva per farmi impazzire, per tenermi legata a lei e calpestarmi meglio. Mi prendeva per il culo, credimi.

La cosa che più mi faceva innervosire era che, per quanto le sue crudeltà fossero palesi, nessuno le notava, nessuno le diceva nulla o cercava di fermarla e, dopo avermi fatta soffrire, tornava, fingendo della compassione. Quella mi confondeva sempre, mi faceva pensare di essere pazza io, di vedere le cose in modo esagerato, così tornavo sui miei passi e la perdonavo. 

Forse, stavo solo mentendo a me stessa, il mio non era perdono, era prostrarsi ai suoi piedi. Lei poteva fare di me ciò che voleva, perché io l’amavo troppo e avrei sopportato qualsiasi angheria per un minimo di attenzione

Quel principio di idea di una Carmen cattiva, aveva, però, messo un germe nelle mia testa. Stava maturando in me la consapevolezza che non avrei mai raggiunto dei buoni voti. 

Le promesse che mi erano state fatte di un miglioramento al terzo anno erano illusioni, come, probabilmente, i miei bei voti del passato e io non potevo fare altro che accettarlo

Iniziavo a pensare che mi andava bene così, che visto che non sarei mai riuscita a brillare per la gloria, allora avrei goduto delle mie ferite. Le avrei sfoggiate con orgoglio, affinché tutti sapessero che io ero una combattente, che stavo lottando anche se avrei perso. Avrebbero avuto, forse, allora, pietà della mia condizione. Sì, stavo così male che la pietà mi sembrava un premio sufficiente. Pietà, mi bastava fare pietà, per sentirmi ancora qualcuno di valore.

La mia insegnante di latino mi mise la sufficienza anche se non l’avevo, dicendo pubblicamente che era giustificata dal mio impegno. La mia insegnante di greco continuava a credere che ce l’avrei fatta e mi faceva capire che, per quanto fossi un’incapace in quella materia, lei aveva comunque stima di me. Ai colloqui con i genitori, tutti i miei insegnanti sprecavano le loro migliori parole per diffondermi forza, per farmi sentire il loro appoggio. 

Era assurdo. Era assurdo perché, pur pensando tutto ciò, loro in classe dovevano rimanerne indifferenti, obiettive, non farsi condizionare dalla pietà che provavano per me, così la mia situazione rimaneva più o meno sempre la stessa.

Era difficile conviverci, ma quel minimo di fiducia mi faceva credere che ci fosse un futuro per me, che avevo anche io qualcosa di speciale, per cui anche se non sarebbe cambiato nulla in quella scuola, c’era un cammino giusto, che dovevo ancora scoprire. 

Quell’anno penso fu il più difficile. Capivo che tutto poteva essere messo in discussione, che non avevo alcuna certezze nel mondo e, per questo, dovevo aspettarmi di tutto. Non sapevo più dove stava la verità e la bugia. Sopraffatta da tutta quella confusione, passavo il tempo ad alternare pianto e scherno di me stessa e di quella ridicola situazione.

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Fu quell’ironia a darmi una spinta in più. Mettevo in atto un gioco, per tirarmi su di morale, per ricordarmi che avevo a che fare con il giudizio delle persone e non degli dei. Umanizzavo i miei insegnanti, cercavo di immaginarmeli nella vita al di fuori di quella scuola, creandone delle caricature.

Condivisi quei racconti con alcuni dei miei compagni di classe. Il gioco piacque anche a loro, così iniziammo a costruire insieme i nostri ridicoli personaggi, partendo da ciò che conoscevamo dei nostri professori.

Ne avevamo tutti un po’ bisogno.  Eravamo in tanti in classe a non andare bene nelle materie principali e la maggior parte dei miei compagni soffriva quanto me per questo. Ognuno si scervellava per capire come uscire da quel tunnel di insufficienze, che ci faceva rischiare la bocciatura. C’era chi era disposto a umiliare il compagno di interrogazione, pur di prendersi un sei; chi copiava più che poteva; chi evitava tutte le interrogazioni, fino a quando non era certo di poterne programmare una a ridosso di una giornata in cui avrebbe potuto dedicarsi unicamente allo studio di quell’unica materia; chi se ne fregava; chi faceva il lecchino; chi sopportava; chi piangeva; chi lottava. 

Per quanto fossimo in tanti nella stessa barca, per quanto potevamo capire sofferenze e ragioni altrui, non eravamo alleati, non ci era permesso, eravamo nemici, ma quel gioco così stupido ci permetteva, per qualche minuto, di divertirci insieme e farci sentire un po’ meno inadeguati

Qualche anno fa ho ritrovato una vecchia compagna di classe, una di quelle con cui non avevo mai litigato, ma con cui, di certo, non andavo nemmeno d’accordo. Ci siamo chieste le solite cose, come va, cosa fai adesso, ti piace quello che fai, ti trovi bene. Tutte risposte positive. 

Mi è subito sorto spontaneo un confronto con il passato, ho proprio pensato: “Stavamo tutti malissimo e ora stiamo bene“. Allora, con una compassione immensa, che nel passato non avrei mai potuto avere, perché avrebbe significato soccombere agli altri e essere bocciata, le ho detto:

Sai, forse, saremmo stati più uniti se i nostri insegnanti ci avessero messi nella condizione di esserlo. Pensavamo che fosse normale odiarci in quel modo, stare così male perché era il liceo classico, ma ho parlato con altre persone e per loro non è stato così, quindi era la nostra classe. Ci dicevano che eravamo una classe ansiosa, ma loro non hanno mai fatto nulla per aiutarci.

Lei è stata d’accordissimo con me. 

Pochi giorni fa ho visto un post di un’altra mia vecchia compagna, chiedeva dei libri per il liceo classico, e specificava: “Non per me, ma per mia sorella, non sia mai che torni al liceo, che incubo”. Non era nemmeno una di quelle che andava poi così male. 

Che tristezza! Cinque anni sprecati a soffrire. Sì, forse ero troppo stupida per quella scuola, forse lo erano anche gli altri, ma nessuno di noi meritava di soffrire tanto. Forse, avevamo tutti qualcosa da offrire al mondo, ma nessuno in quella scuola ci ha aiutato a scoprirlo. Mi dispiace per ognuno di noi, ci hanno reso merce rovinata, alcuni forse irrimediabilmente. 

Con quelle buffe storie, usavamo la nostra frustrazione e dolore per trovare un momento di serenità, per ridere delle nostre sventure. Pensai, quindi, di aver scoperto qualcosa di importante su di me. 

Tanti credono che strappare una risata sia un’opera tanto complessa quanto far commuovere qualcuno e, soprattutto, un atto di valore. Così, per un certo periodo, pensai che quella potesse essere la strada a cui ero destinata. Visto che era palese che non fossi una brava scrittrice, che in tutto quel fronte mi ero totalmente sbagliata, forse, ero destinata a qualcos’altro di simile, forse dovevo fare la comica, visto il successo di quel gioco

In realtà, non c’ho mai creduto veramente, l’ho sperato, perché questo avrebbe significato aver trovato qualcosa che mi rendesse un essere di valore per la società, senza bisogno di scavare ulteriormente e di sforzarmi troppo, ma sapevo che non era così.

Era una scorciatoia, qualcosa che mi avrebbe semplificato la via verso Carmen, anzi, in realtà non mi avrebbe mai portato da lei. Era una strada vicina, ma essere vicina a Carmen non mi era mai bastato. Per questo fare la comica, anche se poteva essere un percorso alternativo, non l’avrei mai sentito mio, non mi avrebbe mai fatta sentire soddisfatta. 

Immagine di copertina realizzata da Giada Penello

Prendere la penna in mano mi rende terribilmente felice. Fin da piccola mi sono innamorata del mestiere di scrivere, poteva essere il classico romanzo rosa, invece porto le cicatrici sul corpo di questo amore. Combatto ogni giorno per conquistare un pezzo del mio sogno, vivere di parole, perché anche se mi fa soffrire ne sono terribilmente innamorata.

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