Auf Wiedersehen, Milva
Un breve e sentito omaggio alla raffinata interprete, straordinaria cantante e amata attrice teatrale che ci ha lasciati lo scorso 23 aprile
Avevo nove anni quando ascoltai per la prima volta Milva in Alexanderplatz. Ero in auto con i miei genitori, in Germania, intenta a guardare le auto sfrecciare nell’Autobahn accanto alla nostra corsia. Era circa metà agosto.
C’era un’afa soffocante: papà aveva abbassato i finestrini e, dopo aver affidato a mia madre la scelta della soundtrack perfetta per accompagnarci durante il lungo tragitto che ci separava da Berlino, aveva inserito uno dei suoi CD preferiti nel lettore.
L’album designato era Milva e Dintorni: sulla copertina era ritratta la cantante dalla lunga e lucente chioma rossa in una posa languida ed un elegante completo nero corvino di Armani, ed Alexanderplatz fungeva da apripista.
Divisa in due come Berlino
Ero troppo piccola per poterne cogliere il significato a pieno e, in tutta sincerità, ciò che mi colpì in particolar modo fu la melodia pop rock del brano, che mia madre accennava a bassa voce muovendo il capo leggermente.
Papà mi spiegò che Berlino era stata divisa in due parti, e che le avremmo visitate entrambe. Il muro che le aveva separate, seppur in parte distrutto, era ancora in piedi. Mi disse poi che quella canzone parlava di una ragazza più grande di me, che aveva deciso di andare a vivere nella parte Est con la persona di cui era innamorata, ma che lì era andata incontro ad una vita era più dura e faticosa del previsto.
E, così, la giovane protagonista del celebre brano della Pantera di Goro tentava di assaporare l’aria dell’Ovest che sapeva ancora di libertà, mentre camminava a passi lenti e cadenzati a ridosso del muro di Berlino e si fermava in prossimità degli angoli dei viali gelidi e deserti come Marlene Dietrich faceva per Battiato.
Chissà se Schubert le piaceva davvero.
Papà non me l’aveva detto, ma quella canzone in realtà inizialmente non riportava la storia di una sconosciuta e provata ragazza berlinese stretta nella morsa del regime: Valery – così si chiamava la prima versione del brano – ritraeva l’attivista transessuale Valérie Taccarelli, che Alfredo Cohen aveva conosciuto a Bologna in un circolo LGBT.
Mancava l’iconico ritornello di Milva, ma il resto non era dissimile dall’Alexanderplatz che mamma canticchiava un po’ nostalgica.
Espressiva e vibrante
Il giorno dopo visitammo finalmente Alexanderplatz, e decidemmo di farlo al mattino presto, poiché desideravo ardentemente che proprio quel luogo segnasse la prima tappa del nostro viaggio.
Non c’era la neve, ma immaginai che tutto fosse coperto da un velo bianco, e che una figura femminile incappucciata ed infreddolita si guardasse intorno sospirando rumorosamente, con lo sguardo fisso sul muro grigio ed inerme, inconsapevole che le macerie di quello stesso muro avrebbero fatto da sfondo ad un’indimenticabile esibizione di Milva, datata 1990, dinanzi alla Porta di Brandeburgo.
Perché Milva era proprio questo: una leva, espressiva e vibrante, che innalzava prepotentemente in chi aveva la possibilità di ascoltarla in platea un susseguirsi di immagini talmente vivide da risultare difficili da cancellare a cuor leggero.
Un incredibile contralto, certo, ma anche una musa di straordinaria eleganza, capace di fare breccia nelle memorie collettive di un’Italia che si è stretta in un cordoglio senza tempo.
“Meritava di essere ricordata di più in vita“, dice Rita Pavone.
Perché mi risulta così drammaticamente difficile darle torto?