La città dei vivi: un viaggio alle radici del male

Il libro di Nicola Lagioia che sviscera il lato più oscuro di una vicenda reale

Destinato a diventare un vero caso letterario, La città dei vivi racconta uno degli omicidi più clamorosi degli ultimi anni, quello del 23enne Luca Varani per mano di due ragazzi poco più grandi, Manuel Foffo e Marco Prato, avvenuto a Roma il 4 marzo del 2016. Tuttavia chi pensa che si tratti di semplice cronaca nera si sbaglia.

La città dei vivi non è solo un romanzo basato sulla ricostruzione dei fatti, né un reportage giornalistico composto da testimonianze, atti giudiziari, dichiarazioni degli imputati e contenuti di intercettazioni. E non è neanche una storia che arriva al lettore filtrata dalla lente di chi narra. È tutte queste cose messe insieme, avvolte da un fascino oscuro e spaventoso, come solo certi fatti realmente accaduti sanno essere. Di gran lunga più oscuri e spaventosi di qualsiasi racconto di fiction. 

ph: www.einaudi.it

Il caso Varani: un semplice omicidio?

Per chi non ricordasse la vicenda, il giovane Luca Varani viene attirato con una scusa nell’appartamento dove Manuel Foffo e Marco Prato sono rinchiusi da giorni a intrattenersi con giochi sessuali e quantità smodate di alcool e cocaina. I due, nel pieno del delirio psichico e senza nessun apparente motivo, stordiscono il ragazzo con un cocktail a base di sostanze e lo seviziano fino a ucciderlo. 

C’è qualcosa che rende il caso Varani diverso dagli altri casi di cronaca nera. Qualcosa che turba, sconvolge, annichilisce chiunque si avventuri nelle sue profondità. Tutti gli omicidi sono assurdi, ma forse quello di Luca Varani lo è un po’ più degli altri, perché racchiude in sé una molteplicità di elementi controversi: l’abuso di droga, la questione dell’identità sessuale, una storia personale fatta di scompensi affettivi e fallimenti, la manipolazione psichica, l’aleatorietà e la mancanza di movente, il degrado a più livelli. Di seguito, si entrerà nel merito di alcuni.

Il ruolo della droga

C’è sempre una certa fascinazione quando si parla di droga, di stati alterati, di dimensioni parallele, di paradisi (o inferni) artificiali. La cocaina è uno dei grandi protagonisti di questa vicenda, è quell’entità attorno alla quale ruotano gli sguardi famelici di gran parte delle persone coinvolte. Impossibile credere che le cose sarebbero andate allo stesso modo se non ci fosse stata la cocaina di mezzo.

La droga ha la capacità non solo di agire sui comportamenti dell’individuo che la assume, nel lasso di tempo in cui durano gli effetti, ma anche di creare un “sottobosco” di relazioni, incontri, intenzioni e movimenti che finiscono per avere il pieno controllo sulla vita di chi c’è dentro. Quando ne fai uso, la droga diventa causa ed effetto di tutte le tue scelte, oltre ad essere uno dei più potenti collanti sociali mai esistiti. Eppure, se fosse questa l’unica ragione dell’omicidio, le nostre città sarebbero piene di casi simili.

ph: Nicolas Ladino SIlva/Unsplash

La questione dell’identità sessuale

Il sesso è l’altro grande nodo da sciogliere per cercare di comprendere le dinamiche che hanno dato luogo all’evento. Ed è anche l’elemento che conferisce ai fatti una pruriginosità che stimola la parte più voyeuristica del lettore.
Marco Prato è un organizzatore di eventi nella comunità LGBT romana, un omosessuale che seduce gli etero anche con un certo successo, cosa che contribuisce a gonfiargli l’ego e a farlo sentire un’eterna primadonna. Marco riesce a sedurre anche Manuel, etero convinto, e a trascinarlo con sé nel suo vortice implosivo.

Nei tre giorni trascorsi nell’appartamento – con Prato truccato e vestito da donna – i due alternano a più riprese consumo di droga, atti sessuali e tentativi di coinvolgere una terza persona nel loro turbine malefico. Una dopo l’altra, nella casa si avvicendano diverse persone, attirate con la scusa del “festino” e riuscite per loro fortuna a sottrarsi alle intenzioni più oscure. Fino al turno di Luca Varani. L’anello di congiunzione tra Luca e i due trentenni è proprio una questione sessuale. Ma anche qui le cose si complicano, perché Luca non fa parte della cerchia gay. Luca si dice fosse una “marchetta” dalla doppia vita: da un lato fedele fidanzato di Marta Gaia, dall’altro prostituto all’occorrenza.

Una vittima scelta a caso e uccisa senza un perché

Uno degli aspetti più spaventosi di questa vicenda è la ricerca di una vittima su basi completamente aleatorie. A un certo punto del loro delirio, Marco e Manuel si mettono in macchina in piena notte e girano per le strade di Roma alla ricerca di qualcuno da coinvolgere nel loro piano oscuro. Non ne hanno ben chiaro il motivo e neppure il fine, se non quello di vivere un’esperienza oltre ogni limite, che avrebbe suggellato il loro legame per sempre. Non trovano nessuno. Allora iniziano a scorrere tra i messaggi di Whatsapp e a contattare gente più o meno a caso, finché qualcuno abbocca. E fra i quattro malcapitati che finiscono in quell’appartamento, Luca è l’unico che – per indole, per ingenuità o semplicemente per mala sorte – non riesce a sfuggire alla furia dei due. 

Nonostante la grande quantità di materiale probatorio consultato, i dibattiti sui media, il parere autorevole dei magistrati e il coro di voci che gravitano attorno alla vicenda – che Lagioia ha sapientemente e scrupolosamente raccolto in ben quattro anni di lavoro – il movente rimane ancora un interrogativo irrisolto. Il vero e proprio cruccio della questione è perché Marco Prato e Manuel Foffo hanno commesso questo atroce delitto? Ognuno di noi può farsi un’idea, ma la verità è che non conosceremo mai fino in fondo le motivazioni e le pulsioni più recondite che hanno spinto due ragazzi ad accanirsi con coltello e martello su un loro coetaneo, lasciandolo dissanguare. Questo è il limite dinanzi al quale  anche l’autore ha dovuto fermarsi, il buco nero in cui non ci è concesso inoltrarci, il tassello mancante che consegnerà definitivamente questa storia al mistero.

 

Ph: Kamil Feczko on Unsplash

Il degrado di una città e di una generazione

Senza dubbio alcuno, quella raccontata nelle pagine de La città dei vivi è una storia di degrado. Un degrado che si dipana su più livelli. Il piano più immediatamente visibile è quello specifico della vicenda omicidiaria. Non ci riesce difficile percepire lo squallore dell’appartamento dove si consuma il delitto, la bassezza di certi dialoghi, lo sfacelo psicofisico di chi sniffa dieci grammi di cocaina in tre giorni. Ancora più degradante il sol pensiero che, dopo l’omicidio, i due abbiano dormito nella stessa stanza in cui giaceva il corpo esangue della vittima.

A un livello superiore si trova il degrado generazionale. Non è un caso che le persone direttamente coinvolte nell’omicidio – oltre a buona parte delle presenze che vi girano attorno – non brillino certo per rettitudine. Marco è un individuo psicologicamente problematico, con un tentato suicidio alle spalle e dedito agli eccessi, che sbarca il lunario come può, organizzando serate e aperitivi che non sempre hanno successo. Manuel è un trentenne con problemi di alcolismo, in rotta con il padre e senza un lavoro che possa definirsi tale. Luca si divide tra lavoretti in officina, aiuto ai genitori e traffici non proprio alla luce del sole. Nessuno dei tre ha un’idea di futuro ben inquadrata. Sembrano spettri in balia di un mondo troppo difficile da dominare. Eppure li percepiamo così vicini alla nostra realtà, così “normali” che non possiamo non interrogarci su una certa deriva generazionale, in cui includerci tutti. 

L’ultimo elemento che riflette il degrado della storia è quello che fa da sfondo agli eventi: Roma, la città eterna da sempre divisa tra gloria e sfacelo, tra decadenza e solennità, tra squallore periferico e sontuosità del centro. A livello cittadino, il leitmotiv del degrado raggiunge il suo climax e forse trova il modo per redimersi, dando una speranza a ognuno di noi. Roma, l’inguaribile malata, la città dove gli autobus si incendiano, i rifiuti strabordano, le strade di sgretolano, i ratti rimangono incastrati nelle tubature e sanguinano attraverso i muri, continua a scoppiare di vita e di bellezza. Continua a esercitare su chiunque capiti al suo interno, per nascita, per destino o anche solo per turismo, un irresistibile richiamo. ‹‹E alla fine il saldo è positivo. La città ti regala molto più di quello che chiede in cambio.››

Nicola Lagioia, direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino e vincitore del Premio Strega 2015.
ph: ActuaLitté

Scrivo con la consapevolezza di non riuscire a esprimere fino in fondo la complessità di questo libro e, soprattutto, della vicenda umana che ne è alla base. Probabilmente l’unico modo per cogliere davvero il senso dell’egregio lavoro di Nicola Lagioia è leggere La città dei vivi dalla prima all’ultima pagina.

Oltre alla passione viscerale e alla dedizione quasi ossessiva, oltre alla volontà di indagare tutte le sfumature del caso per restituire al lettore un contesto completo e permettergli di farsi un’idea propria, a Lagioia va il grande merito di essersi astenuto da qualsiasi giudizio morale. Anzi, se qualcosa che assomiglia a un giudizio c’è, non è rivolto verso qualcun altro, ma è la domanda che ognuno dovrebbe fare a se stesso. 

Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice? Ẻ sempre: ti prego, fà che non succeda a me. E mai: ti prego, fà che non sia io a farlo.

Nicola Lagioia, La città dei vivi

Lavoro nel mondo della comunicazione e passo il resto del tempo tra sport, libri e concerti. Mi piace scrivere poesie, andare alla scoperta di luoghi e, in generale, guardare oltre la superficie delle cose. Su Cogito et Volo do spazio alle mie visioni e riflessioni.

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